LA Priest, “Gene” (Domino Records, 2020)

Nella giornata che abbiamo dedicato agli LCD Soundsystem per il decennale di “This Is Happening” avevo buttato l’occhio su una discussione social in merito a come potesse essere invecchiato, per l’ascoltatore del 2020, il suono DFA. Ecco, se quello degli LCD è invecchiato benissimo e quello delle band contigue fa ancora la sua figura, non si può dire lo stesso se allarghiamo la “scena” a svariati fenomeni di metà anni zero. Un esempio negativo che nella discussione di cui sopra metteva d’accordo tutti erano le CSS, dal Brasile. Il fatto che abbiamo sempre usato il femminile premiando la netta prevalenza di ragazze sul polistrumentista baffuto è il solo ricordo positivo e gentile che resta a distanza di anni. Ora, voglio chiarire che il preambolo dell’invecchiare malino in apertura di un pezzo sul  nuovo disco di LA Priest può essere fraintendibile. “Gene” non è per nulla un disco trascurabile e non è neanche così passatista, solo che è condizionato da un suono che non valorizza in pieno una scrittura che è abbastanza fuori dal comune.

Dunque, prima di tutto LA Priest è Samuel Eastgate (detto Sam Dust) e “Gene” è il secondo album (il primo era “Inji” del 2015). Nel 2016, Eastgate aveva anche realizzato un album col progetto Soft Hair in duo, insieme a Connan Mockasin. Ma il nome, la voce e il talento di Sam Eastgate non possono non associarsi ai Late Of The Pier, ad Erol Alkan e all’epoca del 2007/2008. “Vedi, figliolo, laggiù una volta era tutto Myspace. E Klaxons. E Digitalism, Justice, Metronomy, Simian Mobile Disco. E primi MGMT”. Sì, i Late Of The Pier di Myspace vissero un po’ la stessa parabola. In comune con gli MGMT avevano questo riferimento ad un immaginario visivamente arcaico e un approccio modernista (per il 2007) nelle frequentazioni, tra sintetizzatori e speleologia, tra vesti assemblate male e una coolness comunque evidente. Il suono dei Late Of The Pier era inconfondibilmente legato alla visione di Erol Alkan che li affiancò, ossia sintetizzatori usati come chitarre, rock da ballare e spigoli rivestiti di gomma. Con in più una componente psych-progressive abbordabile e vitaminizzata ma non banale. Uscirono tanti singoli nell’arco di quei due anni e poi l’album che li conteneva: “Fantasy Black Channel”. Poi, come tante altre cose più o meno belle evaporarono nel momento in cui emerse chiaramente un senso di non replicabilità di quella cosa lì.

Da quel momento iniziò a prender forma davvero la creatura solista LA Priest (che esisteva da molti anni ma a latere della band madre). E fu un’evoluzione naturale di quel sentire trasportato in un contesto intimo e meno rave. LA Priest unisce da sempre la padronanza di una scrittura intrinsecamente articolata alla perdita del bisogno urgente di articolare ogni singolo passaggio di una canzone.

“Gene” marcia in un territorio pop elettronico tra sintetizzatori e drum machine con l’andamento sbilenco di David Byrne e le danze buffe di Thom Yorke. Il trittico di partenza (con “Rubber Sky” dentro) è un’autostrada e “Open My Eyes” è forse già un punto di approdo che potremmo definire classico. È art rock pitturato di glam che non disdegna la struttura canonicamente tipica delle canzoni pop. Sam Eastgate è invecchiato in modo rassicurante, sebbene nei video si mostri molto poco. Del ragazzetto di quei tempi è rimasto non tanto. Quell’immagine di quattro giovanissimi inglesi tutti nervi, capelli, tastiere e ritmi rimane cristallizzata nei ricordi di un biennio. Cristallizzata come il ricordo del loro batterista, Ross Dawson, morto in maniera improvvisa anni fa.

E questa perla di disco sarebbe stato un lavoro eccellente se LA Priest avesse mollato gli ormeggi del tutto anziché ricercare un impalpabile nesso con quell’era. La cabina di regia condivisa con Erol Alkan frena proprio quando crede di accellerare e d’imprimere al disco un marchio gommoso-french-kitsuné. Intendiamoci, i suoni sono anche parecchio la farina del sacco di Samuel Eastgate se è vera tutta la storia che è da due anni che, isolato dal mondo, sta mettendo a punto l’apparato ritmico di questo disco. Comunque”Gene” è un fiume da amare quando esce un po’ dagli argini, cosa che al suo autore riuscirebbe magnificamente. Meno male che a fronte di dettagli levigati e in carreggiata conserva cose illogiche come la strumentale “Peace Lily”: due minuti tra l’Oldfield di “Hergest Ridge” e una roba dei Ratatat. Che poi erano di quell’epoca che dicevamo e forse allora ha ragione lui.

74/100

(Marco Bachini)