PAOLO SPACCAMONTI, “Volume quattro” (Escape From Today / Dunque, 2019)

Una delle prime pagine che io abbia scritto su Kalporz è stata proprio la recensione del disco che Paolo Spaccamonti ha pubblicato l’anno scorso per la Boring Machines con Jochen Arbeit (Einsturzende Neubauten, AUTOMAT). A distanza di più di un anno mi ritrovo a scrivere nuovamente di quello che considero uno dei migliori musicisti del panorama italiano e peraltro a distanza di pochi giorni dalla mia prima volta in quella città, Torino, che era stata omaggiata nell’album “CLN”. Che poi è il nome di una piazza della città.

Il tema dell’album, allora, era la simmetria. Come le due fontane che raffigurano i fiumi Po e Dora Riparia e con le due chiese gemelle alle loro spalle, si fronteggiano in una simmetria prospettica, allo stesso modo, faccia a faccia, si mettevano uno davanti all’altro Paolo e Jochen Arbeit, sfidandosi (diciamo così) a duello come in un film di Sergio Leone mescolato con quel thrilling Dario Argento che in Piazza CLN aveva girato il primo “omicidio” di “Profondo rosso”.

“Volume quattro” (Escape From Today / Dunque), prodotto e registrato da Gup Alcaro al Superbudda di Torino (eccetto per “Paul dance”, registrata da Maurizio Borgna), non gira effettivamente attorno a un concept specifico, anche se traccia dopo traccia, scorrendo i titoli dell’album, possiamo leggervi una narrazione che assomiglia a un thriller o comunque a un film o un romanzo dalle connotazioni strettamente noir.

Il disco è effettivamente la prova di un chitarrista che questa volta da solo (poche le collaborazioni, giusto quella di Davide Tomat su “Ablazioni”) scrive questa specie di racconto noir che mi ha ricordato un po’ quel bellissimo disco intitolato “Stanza 218” che Emidio Clementi pubblicò col moniker El Muniria oramai quindici anni fa. Certo, mancano i testi e i suoni sono sicuramente più vari, molto più incisivi e taglienti, ma la narrazione ci sta tutta e allora via con gli accostamenti a Ry Cooder e immagini che possono fare pensare al cinema di David Lynch.

Le canzoni poi effettivamente rispecchiano fedelmente nel suono quelli che sono i titoli: “Cuocere verdure e fare il brodo con le ossa”, “Nessun cordardo tranne voi”, “Un gelido inverno”, “Rimettiamoci le maschere”… Il suono è elettrico, come solcare in diagonale un paesaggio desertico in bianco e nero, la superficie del suolo lunare oppure tipo le immagini dell’aeroporto competamente svuotato di Linate negli scatti che ho visto sul Corriere della Sera durante la scorsa estate.

Forse il senso del disco sta qui, cioè è quello della solitudine nei posti affollati; sentirsi soli nella quotidianità di un mondo globalizzato che sembra mostrare prospettive infinite ma che non puoi toccare e affannoso, ti costringe sempre ad inseguire. Allora ti fermi, guardi quello che ti succede attorno e racconti una storia. Eccola qua: Paolo Spaccamonti ce ne racconta una, poi ognuno la può leggere come gli pare, tanto la storia, si sa, parafrasando Massimo Troisi ne “Il postino”, è di chi la usa. Qui è di chi la ascolta. Ma fa lo stesso.

75/100

Emiliano D’Aniello