HONOLULU, “Honolulu” (Foehn Records, 2019)

“Honolulu” è il primo album dell’omonimo duo francese di dream-pop fondato nel 2016 a Barcellona dai fratelli Léa (voce, basso, tastiere) e Quentin (chitarra, basso) Mével. Si tratta di un album di debutto in cui i fratelli Mével dimostrano di avere già una grande personalità e consapevolezza dei propri mezzi, nonché un’idea ben precisa della forma e direzione impresse alla loro creatura musicale. Un progetto che sembra fondarsi sulla ricerca di un equilibrio fra la necessità di comprensione di una realtà sempre più inafferrabile e il rispetto di una tradizione importante con cui dialogare: band immortali come Beach Boys innanzitutto, e poi Cocteau Twins, Slowdive e i contemporanei Beach House. In particolare, il paragone con il duo di Baltimora sempra quasi d’obbligo per affinità sonore e atmosferiche. E, d’altronde, dischi come “Devotion” e “Teen Dream” hanno sconvolto la musica contemporanea e lasciato un imprinting indelebile nel dream-pop e generi affini.

Questo disco d’esordio è composto da un flusso sonoro di nove tracce che non lascia punti di riferimento e sorprende l’ascoltatore con continui cambi di atmosfere e ritmi. Si veda come i primi 5 minuti del disco, un caos calmo dominato dalla voce eterea di Léa e le onde sognanti della chitarra di Quentin, assumano la forma, a partire dal refrain di “Bats”, di una specie di bolla elegiaca imperfetta perché sommossa dai venti della tempesta disumanizzante che ci circonda: “Black bats in your ceiling / Black bats in your heart” canta Léa, impressionando per l’intensità con cui la sua voce può colpire al cuore. Le tastiere spettrali e i giri spietati di un basso stile dark-wave prendono il sopravvento nei 257 secondi di “Boys in the park” che, tornando ai Beach House, potrebbe essere una “Norway” ambientata nella solitudine verde dei parchi barcellonesi: “You are a man / in a car / leaving your home sweet home” è l’inizio di questa canzone il cui sottotitolo ideale potrebbe essere “David Lynch a Barcellona”. Le successive “Not a Star”, “Stop the time” e “What’s like” sono ballate distorte e nervosissime, in cui la chitarra di Quentin turba l’armonia folk del cantato di Léa attraverso intermezzi scintillanti di arpeggi jingle jangle e fitte trame zigzaganti che ricordano molto i migliori Real Estate e Mac De Marco. Allo scorrere dei suoni corrisponde la fluidità dei testi, fondati su uno stile beat e sull’uso dell’anafora. Ne sono un esempio in particolare la già citata “Bats” e “Sparrows”: “Sorrow / is for sparrows / that come and go / just as they please / just as they please”. E tuttavia prevale, nei brani centrali del disco, una tendenza verso il melodico che macchia in parte questo sfavillante esordio. Il livello torna ad alzarsi nel finale: con le canzoni “Summer Danger” e soprattutto “Alpha”, il duo vira verso una destrutturazione della forma-canzone con digressioni stranianti a metà fra dream-pop e new-wave.

Che il progetto degli Honolulu sia talmente maturo da lasciare intravedere, fin dal suo debutto, possibili linee future di evoluzione? Troppo presto per dirlo. Per adesso possiamo goderci un ascolto che è apprezzabile non solo per una questione di tecnica musicale. Gli Honolulu sono dotati di una forte sensibilità che li rende capaci di leggere a fondo e interpretare musicalmente la dispersione che caratterizza il contemporaneo. Immergersi in una canzone come “Bats” per credere.

“Do you know the words? / Do you know the words? / I don’t either, Oh no./ If you know how to dance, / If you know how to dance, / Then I’ll follow your steps / Oh no. / Black bats in your ceiling, / Black bats in your heart. / If love is always right, / As love is always right, / Well I am never…/ If you know how to dance, / And love is always right, / Then I’ll follow your steps, / Oh no. / Black bats in your ceiling, / Black bats in your heart.”

75/100

(Emmanuel Di Tommaso)