AFRICA FOR AFRICA No. 4

“To regain legitimacy, the global economy must be guided by an ethical framework that addresses the gross inequalities in our world, and meets the basic needs and aspirations of people everywhere”.

KOFI ATTA ANNAN (1938-2018)

MANU DIBANGO, “Soul Makossa” (Fiesta/Atlantic…, 1972)

Probabilmente pochi conoscono il suo nome, ma Emmanuel N’Djoké Dibango – noto semplicemente come Manu Dibango – è un nome fondamentale per quello che riguarda non solo la diffusione della musica del continente africano a livello massivo, pure commerciale, ma per l’intera storia della disco music. “Soul Makossa”, singolo pubblicato nel 1972 e contenuto nell’ominimo LP uscito in Francia su Fiesta (ma pubblicato poi in tutto il mondo su label come Atlantic ecc. ecc., viene da molti critici e “storici della musica” ritenuto come uno dei pezzi fondamentali nella nascita e la diffusione della disco. Vero oppure no, il pezzo (registrato come b-side di “Hymne De La 8e Coupe D’Afrique Des Nations”, pubblicato per l’accesso ai quarti della finale della Coppa d’Africa del Camerun, che quell’anno disputava la competizione in casa), scritto peraltro da un poeta e musicologo influente come S.M. Eno Belinga (premiato anche con importanti riconoscimenti a livello internazionale e in particolare nella sua patria d’adozione, la Francia) e gode ancora oggi di fama imperitura e negli anni è stato reinterpretrato e inserito come campionamento in pubblicazioni di artisti celebrati nel mondo della musica pop.

Come S.M. Eno Belinga, anche Dibango nasce in Camerun a Douala, ma è per meta uno Yabassi e probabilmente anche questa componente lo ha spinto a creare un sound che fosse tanto innovativo quanto appunto rappresentativo di entrambe le culture, non sentendosi in fondo egli stesso parte necessariamente di una o dell’altra e soffrendo persino una sensazione di mancanza di identità e riconoscimento nei suoi genitori. Dibango era protestante, conosceva il francese per averlo studiato sin da bambino, comincio a suonare come sassofonista e vibrafonista nel gruppo congolese African Jazz, tra la fine degli anni sessanta e inizio anni settanta comincia a ottenere una certa fama che poi raggiunge il suo apice nel 1972 con “Soul Makossa”. Un disco che è chiaramente, basta ascoltarlo, senza nessun tempo e che oggi suonerebbe quasi strano ricollegarlo solo a generi come afro-beat e alle radici comunque evidenti della musica tradizionale camerunense.

Il disco si apre appunto con la title-track, il pezzo ha un sound fusion in pieno stile Isaac Hayes combinato ad un groove space funky music e caricato a mille dal sound dei fiati: il richiamo “disco” è inevitabile, il pezzo è sicuramente ballabile, ma è soprattutto l’estetica “makossa” a dare al vibe quella componente aggiuntiva e inedita che contraddistingue in buona sostanza l’innovazione di Dibango nella musica funky occidentale. “Lily” rimanda più a dimensioni afro-beat che riprendono sound della tradizione musicale camerunense, è un pezzo caldo, con richiami tropicali, un canto gioioso che si converte quasi in una rumba con l’impazzimento delle percussioni e il giro di fiati; “Dangwa”e “O Boso” riprendono in una dimensione quasi trance i temi della title-track, lo stesso vale per “New Bell”, che ha un giro di basso incredibile e che ripetuto ad libitum con il suono della chitarra regala al pezzo un groove ossessivo spaziale; “Nights In Zeralda” mescola a tutte le componenti precedenti quella che possiamo definire come una manifestazione della indole più istrionica di Dibango, che con i fiati si diverte a rimandare a sound mediorientali e poi jazz più tipici mentre in sottofondo il vibe della sezione ritmica continua indisturbato. Chiude “Hibiscus”, un tema a metà tra la musica progressive e l’afro-beat, quasi cinematico, fa pensare a alcune colonne sonore spaghetti western dell’epoca.

Dire che questo disco sia un pezzo fondamentale non solo della musica africana, ma di storia, è sicuramente vero, noi non siamo storici, siamo semplicemente appassionati di musica e la ragione per ascoltare “Soul Makossa” trascende ogni dizionario, diventa catarsi ed è l’opportunità per approcciarsi ad un musicista incredibile. Calarsi nel groove disco “makossa” significa scavare a fondo nella nostra anima, riscoprendo la nostra indole più selvaggia fatta di emozioni contrastanti e attitudine tanto al divertimento, quanto a trance autogene e auto-ipnotismo.

AA.VV. , “Pop Makossa – The Invasive Dance Beat of Cameroon 1976​-​1984” (Analog Africa, 2017)

Quando Samy Ben Redjeb ha fondato la Analog Africa, la prima cosa che ha fatto è stata andare in Camerun. Le sue intenzioni erano scavare nella scena musicale del paese, ma anche andare a fondo nella storia di quello che era il sound pop makossa, poi reso celebre in tutto il mondo da Manu Dibango. Fu una spedizione proficua, perché Samy dopo aver indagato a fondo,  recuperò un numero di tracce considerevole per poter fare una compilation di musica dedicata a una rivisitazione del genere. Solo che a un certo punto si è posto due questioni: la prima riguardava la necessità di lavorare alla compilation sul piano della produzione, la seconda quella di andare a ricercare tutti gli artisti che si volevano proporre nella compilation, un lavoro complicato che ha richiesto anni. Cominciato nel 2009, infatti, quest’opera di ricostruzione è terminata solo nel 2017 nel corso di diversi viaggi compiuti dal dj e producer Déni Shain, che ha viaggiato attraverso il Camerun incontrando gli artisti, ottenendo le autorizzazioni necessarie e anche per fare una specie di reportage.

Tutto questo lavoro sta alla base e ha accompagnato la realizzazione e la pubblicazione di “Pop Makossa – The Invasive Dance Beat of Camerun”, compilation che raccoglie tracce registrate nell’epoca d’oro della makossa compresa tra il 1976 e il 1984. La scelta delle canzoni è stata difficoltosa, Samy e Déni hanno selezionato dodici artisti diversi con la volontà di proporre sia il meglio che la maggiore varietà di sfumature possibili del sound tipico e da cui poi si è sviluppata la disco music. Si va dal funky di Isaac Hayes dei Dream Stars, al groove spaziale di Mystic Djim & The Spirits fino a quello di Clément Djimogne, passando per l’ipnotismo di Emmanuel Kahe & Jeanette Kemogne, l’afro-beat ossessivo di Nkodo Si-Tony e Pat’Ndoye (spettacolare la sezione di fiati), il sound Dur Dur Band di Olinga Gaston, quello più tradizionale di Pasteur Lappé, le tastiere “Lambada” di Bill Loko e l’acidità dub di Eko. In pratica, senza volere essere cattivi, con questo disco tra le mani potete pure buttare via tutta la produzione dei Talking Heads che davanti a questi pezzoni fanno la figura di George Foreman sotto i colpi di Muhammad Ali al Rumble In The Jungle di Kinshasa del 1974.

STELLA CHIWESHE, “Kasahwa: Early Singles” (Glitterbeat, 2018)

Stella Chiweshe (nome completo: Stella Rambisai Chiweshe Nekati) ha settantadue anni, è nata nel 1946 nel villaggio Mujumi a Mhondoro nello Zimbabwe, nazione della quale è una delle personalità più rappresentative, non solo nel mondo della musica. Da adolescente si appassionò come tanti della sua generazione in giro per tutto il mondo al rock and roll, il suo mito era Elvis Presley, ma poco dopo fu inevitabilmente catturata dalla musica tradizionale del suo paese, quando fu introdotta nei rituali del millenario popolo Shona e di conseguenza al suono della mbira, strumento composto: da una tastiera in legno (accordato su una gamma pentatica), da un risuonatore e da tasti fatti di lamelle in metallo. A tale proposito va detto che la “mbira” è anche il nome dato al genere musicale derivato e che di questo strumento dagli anni sessanta è stata edita una riprogettazione diffusa negli Stati Uniti d’America. Lo strumento ha un ruolo chiave nella ritualità e sta al cuore dell’ intera filosofia spirituale del popolo Shona, perché si ritiene possa evocare le anime dei defunti come di acqua, alberi, pietre e uccelli. Chiweshe divenne la “Regina della mbira”, ma questa definizione può essere completa solo se si considera la sua natura di spirito libero: una femminista rivoluzionaria che ha organizzato festival internazionali in Zimbabwe dedicati alla causa e che negli anni ha ottenuto riconoscimenti in tutto il mondo per aver lottato per affermare la sua posizione, non solo all’interno della società, ma rompendo gli stessi schemi del culto Shona: nessuno infatti voleva insegnarle a suonare lo strumento, ha dovuto persino fabbricarsene uno da sola.

Le sue prime registrazioni, mai pubblicate fuori dallo Zimbabwe, risalgono ai settanta durante la rivoluzione di Chimurenga e sono quelle contenute in questa pubblicazione della Glitterbeat masterizzata da Nick Robbins (“Kasahwa: Early Singles (1974-1983)”). Queste sono chiaramente tutte incentrate sul suono della mbira e le parti cantate rievocano tutte gli antichi rituali già richiamati del popolo Shona. I pezzi sono chiaramente ripetitivi, adempiono a quella funzione rituale creando una specie di mantra avvolgente, ipnotico e mai come in questo caso la definizione di sciamanesimo tribale è corretta, perché corrisponde alla sostanza e possiede un suono puro e non  contaminato da nessuna componente terza. L’unico medium qui si chiama Stella Chiweshe e tutto il resto è solo spirito. Probabilmente non è una pubblicazione per tutti, ma solo per chi abbia un interesse specifico nell’artista in questione o comunque voglia sperimentare veramente qualche cosa di nuovo sia sul piano delle esperienze sonore che spirituali in senso stretto. In ogni caso al cospetto di una figura così grande, una donna di settantadue anni che a ragione si definisce ancora come una ribelle, io mi posso solo togliere il cappello e vi invito a fare lo stesso.

BROTHER VALENTINO, “Stay Up Zimbabwe” (Analog Africa, 2017)

Un’altra pubblicazione in edizione limitata della Analog Africa, uscita nell’agosto del 2017. Per l’ennesima volta ci trasferiamo dal cuore dell’Africa ai Caraibi, seguendo una scia attraverso l’Atlantico macchiata di sangue fino a Port Of Spain nel Trinidad. Qui facciamo la conoscenza di Anthony Emrold Phillip aka Brother Valentino (oppure semplicemente Bro. Valentino), figura di rilievo nella scena “calypso” caraibica e che dopo avere cominciato come membro del gruppo The Big Bamboo, negli anni settanta divenne il principale rappresentante della cultura Black Power nel suo paese. “The People’s Calypsonian”, pubblicò tutta una serie di singoli ed EP ed un solo LP (“Third World Messenger”, 1976, praticamente impossibile da trovare, speriamo in qualche opera di recupero di qualche label illuminata come la Analog Africa), si distinse per essere una figura  rappresentativa per quello che riguarda tanto il black power quanto l’aria di rivoluzione che si poteva respirare nei caraibi alla fine degli anni settanta.

Questa pubblicazione recuperò due suoi pezzi che divennero oggetto di un vero e proprio culto nei caraibi e che avevano come tematiche, non solo la causa della popolazione di origine africana del Trinidad, ma si richiamavano alla lotta contro l’apartheid e la rivendicazione dell’indipendenza e della grandezza del patrimonio culturale del continente africano. Due veri e propri inni, “Stay Up Zimbabwe” e “Ah Wo (Brand New Revolution)” raccolti in questa mini-pubblicazione che per la verità ha un carattere sul piano della durata “temporale” meno breve di quanto si possa immaginare. La grande forza nel sound, sta oltre i testi, molto diretti e senza giri di parole, e coincide con la durata di queste due spettacolari sessioni di jazz fusion mescolato a afro-beat, a sonorità calypso e caraibiche, sapori per i quali ho sinceramente un debole, ma dopotutto come potrebbe essere altrimenti?  Impossibile stare fermi davanti a questa colorata parata rivoluzionaria.

ANTONIO SANCHES, “Buli Povo!” (Analog Africa, 2018)

Questo genere musicale ha una denominazione specifica: “fufaná”. Il genere è caratteristico e rappresentativo della cultura tradizionale africana di quella che oggi è la Repubblica di Capo Verde, stato insulare nell’Atlantico abitato da mezzo milione di persone e storicamente colonia portoghese. Proprio i portoghesi praticamente avevano vietato questa musica perché a un certo punto assunse un significato più ampio anche in senso politico e legato all’affermazione della propria identità culturale. Negli anni divenne quindi una musica “clandestina” e diffusa in giro per il mondo dai capoverdiani esuli dal proprio paese, finché l’indipedenza ottenuta nel 1974 e figure chiave come il chitarrista Katchas o il gruppo Bulimundo cominciarono a rinnovare il genere con l’introduzione di strumentazione elettrica e staccandolo dalle sue radici strettamente rurali e più “primitive”. Tra i musicisti emergenti vi fu Antonio Sanches, musicista in qualche maniera dimenticato e le cui registrazioni sono state praticamente recuperate dalla label Analog Africa proprio grazie al suo intervento diretto.

Qui viene riproposto un suo LP del 1983, registrato a Lisbona e con uno dei gruppi storicamente più rappresentativi della cultura del suo paese: i Voz de Cabo Verde, attivo dalla fine degli anni sessanta e successivamente anche con diverse variazioni di line-up fino all’inizio degli anni ottanta. L’album originale, oggi praticamente introvabile, qui ritorna alla luce dopo 25 anni e ci propone un sound assolutamente originale e poco convenzionale pure per gli appassionati della musica proveniente da quello che Edoardo Vianello cantava come “continente nero”. Parlerei sicuramente di musica folk popolare, le canzoni di Antonio Sanches sono sicuramente delle ballads dal ritmo compulsivo e cantate con la sua voce gretta ma allo stesso tempo calda e espressiva, ma gli arrangiamenti sono assolutamente particolari e superano il semplice uso delle percussioni tipiche della tradizione con innesti di chitarra acustica e altri strumenti a corde, suoni di tastiera e marimbas che sono una via di mezzo tra sonorità calypso e tropicali, oggi diremmo “caraibiche” (ma chiaramente le origini del sound caraibico affondano le proprie radici nel continente africano, quindi…). Del resto proprio Capo Verde, dove sbarcò anche Cristoforo Colombo durante uno dei suoi viaggi, definendola come un’isola arida e difficile dove vivere, è sempre stato uno dei paesi più segnati da difficoltà dovute sia al territorio quanto a uno sfruttamento intensivo del paese a partire dalla deportazione massiva degli schiavi verso le Americhe, pure considerando la posizione del paese, che passa alla storia in maniera nefanda per essere lo scalo prediletto per i mercanti di schiavi, e poi per la violenta colonizzazione portoghese andata avanti come detto fino al 1974, lasciando come sempre dietro di sé difficoltà di ogni tipo. La cultura capoverdiana si è riuscita comunque ad affermare anche al di fuori del suo paese, proprio grazie alla musica e in particolare grazie a un’ artista gigantesca come Cesaria Èvora.  Un paese così piccolo eppure così ricco da proporre anche altri generi come la kizomba, il batuque e appunto la funaná, che questo disco riporta giustamente alla luce.

GIRMA BÈYÈNÈ & AKALÉ WUBÉ, “Éthiopiques 30: Mistakes On Purpose” (Prado Records, 2017)

Per gli Akalé Wubé, gruppo francese formato a Parigi nel 2009, fare questo disco è stato come realizzare un sogno: era stato proprio l’amore e la folgorazione per l’ethio-jazz del resto a farli mettere assieme e dare vita a una delle esperienze, nel mondo “occidentale”, più potenti degli ultimi anni per quello che riguarda la devozione a questo sound. Fare un disco assieme al leggendario Girma Bèyènè, uno dei giganti della storia dell’ethio-jazz, costretto a lasciare il suo paese negli anni ottanta per sfuggire al regime di Menghistu Hailè Mariàm (poiché il tema è di attualità, quando parliamo del “corno d’Africa” in Italia lo facciamo sempre senza sapere veramente niente della storia di quella regione, che anche il nostro paese ha contribuito a rovinare con i suoi tentativi patetici di colonialismo) all’inizio degli anni ottanta, quando colse l’occasione di un tour al seguito del producer Amha Eshèté e rifugiò negli Stati Uniti d’America.

Chiaramente le cose non andarono bene come Girma avrebbe sperato, la realtà negli States era comunque difficile e sia lui che altri musicisti transfughi in quella occasione, facevano parte di una ristretta comunità etiope staccata dal contesto che li circondava. Così la musica fu praticamente messa da parte e negli anni si diedero da fare con i lavori più disparati per sbarcare il lunario, rendendosi conto che l’amara realtà avrebbe impedito loro di continuare a vivere di musica. Poi nel 2008 finalmente Girma fu richiamato a suonare in patria assieme ad altri musicisti che pure avevano lasciato il paese praticamente da trent’anni e in quell’occasione ricominciò finalmente a suonare regolarmente.

Poi ecco finalmente questa pubblicazione sponsorizzata da Francis Falceto e uscita per la label parigina Prado Records diretta da Benjamin Verdier e David Georgelet. L’album è un doppio vinile intitolato “Éthiopiques 30: Mistakes On Purpose” e pubblicato nel gennaio del 2017 con la produzione di Fabien Girard. Per l’occasione, come detto in apertura di questa recensione, Girma è accompagnato da gli Akalé Wubé. Il collettivo, ormai rodato da dieci anni di esperienza, dimostra una grande maturità artistica nell’accompagnare questo musicista e compositore che relegare al solo genere ethio-jazz sarebbe riduttivo. Sebbene questo costituisca chiaramente la matrice principale del sound di Girma Bèyènè, il suo eclettismo lo porta a contaminare il suo sound con influenze della black-music afro-americana dal rhythm and blues al soul e suonare pezzi più prossimi allo “standard” del genere jazz o condizionati da una certa influenza tropicale elettrica tipo Santana (ma senza spacconate) e che rendono il suo sound unico e questa pubblicamente – ovviamente – un piacevolissimo ascolto.

MEDICINE BOY, “Kinda Like Electricity” (Permanent Record/Roastin’ Records, 2016)

Questo disco poteva pure stare benissimo in una rassegna di musica psichedelica. Sarà meglio fare una specifica nel merito e che poi vale per l’intero progetto dedicato alla scoperta e riscoperta del patrimonio musicale e culturale africano, che costituisce un lavoro dedicato alla esplorazione di un continente che è una realtà multiforme e difficile, forse impossibile da conoscere sotto ogni aspetto e questo vale per me in primo luogo. È un viaggio ideale che condivido con chi legge queste pagine e con tutti gli ascoltatori, ma questo non ha contenuti di natura “folkloristica”. Respingo la definizione di “folklore” intesa come una specie di ritorno alla natura, da quel fanciullino di Giovanni Pascoli o delle “Bucoliche” di Virgilio. Quello che ci interessa non è vedere le persone ballare la tarantella, siamo stanchi di questa retorica, qui vogliamo invece scoprire musica e cultura che hanno un valore sostanziale oggi, contenuti che siano originali e veri, molto più di quelli proposti in maniera dozzinale a livello mainstream oppure indie nel mondo occidentale. Voglio andare contro l’Africa vista come un luogo comune: parliamo di una realtà ricca di storia e di cultura eterogenea, ma questo non appartiene al passato. L’Africa è un continente vivo, sebbene condizioni di indigenza e di difficoltà diffuse sul piano economico e sociale siano terribilmente reali.

Questa premessa per dire che senza volere in qualche maniera apparire per forza “originali” oppure anti-convenzionali, si cerca con queste righe di spezzare dei luoghi comuni che non fanno bene alla nostra mentalità e al nostro pensiero e che hanno contenuti che sono in qualche maniera “razzisti” (giusto usare le virgolette) seppure a livello inconscio. È un po’ anche per questo che propongo questo dischetto di un duo di musica neo-psichedelica e che adesso è di base a Berlino in Germania ed è stato appena lanciato dalla Fuzz Club Records, che il prossimo cinque ottobre pubblicherà il loro prossimo LP. Qui abbiamo il primo LP che risale al 2016 e si intitola “Kinda Like Electricity” e che è stato pubblicato su Permanent Record e Roastin’ Records. Loro sono i Medicine Boy (André Leo e Lucy Kruger), sono “bianchi” e provengono da Città del Capo (Sud Africa). Il disco del patrimonio culturale africano riprende sicuramente un certo uso delle percussioni, che sono graffianti e suggestive, un uso delle distorsioni “sotterraneo”, cupo e di chiara matrice blues. Questi richiami potrebbero essere forzature dovuti alla mia lettura delle cose. In fondo le canzoni sono ballads mormorate, che pongono una certa enfasi su visioni che appartengono a un immaginario fatalista, quasi francese e contaminato con un rock and roll più accattivante tipo BRMC oppure Jesus and Mary Chain.

Ecco, sicuramente questo disco considerato in quel contesto, potrebbe avere apparentemente contenuti contraddittori rispetto alla premessa e al proposito del progetto complessivo. “Kinda Like Electricity” è un bel disco di musica neo-psichedelica (niente di spettacolare, diciamolo), il sound ha delle marche shoegaze e a tratti sconfina nello slowcore più moderato, quasi Galaxie 500, ma non ha veri contenuti di natura sociale e che siano veramente viscerali. Sembra più la propagazione di una cultura sofisticata e artificiale, una spinta in una direzione europea come volere scappare fuori da un mondo che evidentemente potrebbe apparire secondo l’ottica di chi ci sta dentro, come ristretto e non di ampie vedute e anche in questo senso parleremmo comunque di ragioni di opportunità e la volontà di potersi confrontare con un mondo diverso. Ci sono evidentemente due facce in un confronto tra mondo occidentale e continente africano. Eppure non dovrebbe essere così: la rivendicazione in senso anti-folkloristico e contro ogni luogo comune come detto non è una spinta alla esaltazione di uno stato di cose diametralmente differente, perché questo significherebbe negare lo status comunque di privilegiato che appartiene a chi vive da questa parte del mondo. Parlo di persone comuni. Siamo uguali,  condividiamo probabilmente aspirazioni simili, abbiamo una stessa sensibilità e gli stessi bisogni e dovremmo avere gli stessi diritti, le stesse possibilità. Tuttavia se vivi in un posto difficile, dove sopravvivere rappresenta la quotidianità, possiamo dirci tutti uguali solo sul piano ideale e allora se vogliamo veramente “incontrarci”, riconosciamoci prima come eguali e facciamo di tutto per esserlo, anche sul piano sostanziale. Altrimenti più che prendere in giro noi stessi, prendiamo in giro gli altri: riconoscere la dignità di una persona non significa chiudere gli occhi. All’inizio del secolo si parlava un sacco di “globalizzazione”, in alcuni ambienti la parola aveva una connotazione esclusivamente negativa, anche perché veniva riferita a una determinata forma aggressiva di capitalismo, che esiste ancora. Riprendiamoci questa parola e rinventiamone il significato in una visione “internazionalista”. Facciamo diventare il futuro, finalmente presente.

Emiliano D’Aniello