SHAME, “Songs of Praise” (Dead Oceans, 2018)


Molte giovani band suonano come vecchie formazioni, ancorate a un passato musicale mai vissuto, interpretato in maniera pedissequa e poco ispirata.
È il caso di tanti gruppi post-punk della scena underground internazionale degli ultimi quindici anni.
Gli Shame, ragazzi ventenni della South London, con il loro disco d’esordio “Songs of Praise” (2018), pur essendo legati innegabilmente a un universo musicale da guitar band anni ottanta, dimostrano la loro età, quella della gioventù : si presentano come autori di dieci canzoni – scritte negli ultimi tre anni fuori e sopra un palco – e interpreti viscerali e passionali del presente, quello di giovani musicisti cresciuti però alla vecchia maniera : suonando in un pub marcio e vissuto del quartiere londinese di Brixton, il Queen’s Head (che ha chiuso nel 2015, per lasciar posto a un gastropub).
Il risultato è un album che è una perfetta fotografia di un giovane gruppo inglese : spontaneità, strafottenza, insicurezze, difetti e tante domande. A partire dalla copertina – la band insieme a una serie di cuccioli di animale – e dal titolo. Entrambi scelti poche ore prime della mandata alle stampe del disco generano – quasi per scherzo – l’effetto di contrasto tra contenuto e contenitore : in particolar modo l’omonimia con “Songs of Praise”, programma di musica di lode della BBC.
Oltre alla voglia di confondere l’ascoltatore c’è anche altro, però : la voglia rabbiosa di raccontare storie fregandosene del parere altrui, Charlie Steen canta in “One Rizla” (la canzone più vecchia di quelle finite su disco), “my nails ain’t manicured/ my voice ain’t the best you’ve heard/ and you can choose to hate my words/ But do I give a fuck” che tradotto (in italiano) significa “le mie unghie non son curate, la mia voce non è la migliore che tu abbia mai sentito/ e puoi scegliere di odiare le mie parole/ ma non me frega un cazzo”. Una vera e propria dichiarazione d’intenti : il desiderio di trasformare “l’insicurezza in forza”, come affermato dallo stesso Steen in un’intervista al Billboard Magazine. Ed è tra flussi di coscienza – significativa in tal senso una traccia come “The Lick” – e continui interrogativi che si sviluppa il fiume in piena di parole e musica della band inglese : tramite un suono chitarristico potente ma non grezzo, calibrato in espressività dai due produttori elettronici dell’album – Dan Foat e Nathan Boddy – voluti dalla stessa band per cercare di creare un suono diverso da quello dei live, evitando quindi il classico approccio da band con le chitarre.
Rimane intatta, però, la profondità delle trame sonore che si intrecciano con lo scorrere irrefrenabile del cantato, narratore a volte di frasi nonsense come nella breve e noise “Donk” e altre volte voce di quadretti narrativi come nella ballata – sentimentale e noir – Angie o come nel tagliente commentario sociale di “Friction” (“l’attrito” tra le idee progressiste della Capitale (Londra) e il resto del paese) e di “Tasteless” (l’indifferenza insita nella società contemporanea sottolineata da una lunga serie di domande).
Gli Shame, quindi, parlano del proprio tempo – qui e ora- in chiave rock. Non accadeva da un po’, quantomeno in Inghilterra.

72/100

(Monica Mazzoli)