KELELA, “Take Me Apart” (Warp, 2017)

Quando mi si chiede quale voce rappresenta al meglio i nostri tempi, non posso fare a meno di rispondere “Kelela” (a cui abbiamo dedicato la cover di Ottobre). In un’epoca in cui la ricerca di sonorità elettroniche non riesce a distaccarsi del tutto dalla riproposizione e, nei casi migliori, dalla rivisitazione degli stilemi degli ultimi due decenni, Kelela ne è la personificazione. In costante equilibrio tra gusto black americano e le pulsioni underground UK che dalla scuola anni 90 arrivano, attraverso il dubstep, alla bass music e al nu-soul contemporanei, la 34enne musa americana dell’alternative R&B ha finalmente pubblicato il suo primo LP, “Take Me Apart”. Per coglierne il talento e l’ispirazione, era stato sufficiente lo spigoloso “Cut 4 Me”, pubblicato nel 2013 dalla Fade To Mind di Prince William che ha avuto la fortuna di incontrare dopo essersi trasferita a Los Angeles, nel corso della sua collaborazione con gli allora chiacchieratissimi Teenage Fantasy. Collaborazioni ben più chiacchierate sono arrivate negli anni a seguire, passando per lo splendido EP “Hallucinogen di due anni dopo. Kelela ha offerto la sua voce, tra i tanti, a Kindness, Clams Casino, Solange (una delle sue estimatrici più popolari, insieme a Björk) e, di recente, e in compartecipazione con Danny Brown, nel nuovo album dei Gorillaz.

Ci ha pensato la Warp a dare ulteriore visibilità alla talentuosa vocalist di origine etiope cresciuta nei dintorni più black della capitale americana che in “Take Me Apart” fa le cose in grande e accoglie in studio una serie di collaboratori non da poco, alla produzione e alla composizione di alcuni brani. Al timone ci sono Jack Latham, aka Jam City, e il sempre infallibile Ariel Rechtshaid a trovare quell’equilibrio tra produzione di nicchia e potenziale radiofonico. Con loro sbucano fuori dal cilindro Arca (in tre brani), Kwes (vedi tra i credits di Nao, Damon Albarn, Bobby Womack e Solange), Bok Bok dell’influente label Night Slugs, Jeremiah Jerry e Asma Maroof degli Nguzunguzu.
Se il primo singolo, la sinuosa “LMK”, aveva fatto notare una decisa virata pop, a tratti solare, il secondo estratto, che apre l’album, “Frontline” (così come la perfetta prosecuzione in ordine di tracklist, “Waitin”), è suonato a tutti gli affezionati immediatamente Kelela, ovvero la risposta “underground” più credibile ai recenti esperimenti di Janet Jackson e perché no, di Beyoncé degli ultimi due album.

Non c’è un momento di calo, nemmeno quando come nella titletrack e in “Blue Light”, le produzioni osano e si avventurano nei territori più cervellotici e “spezzati” della Kelela degli esordi e non a caso qui il team di produzione è al completo, con l’aggiunta di un certo Al Shux, per intenderci l’uomo dietro “Empire State of Mind” di Jay Z e Alicia Keys, già al lavoro con Nas e Snoop Dogg, e di Arca. Anche negli altri due brani prodotti dal corteggiatissimo producer venezuelano, “Onanon” e “Turn To Dust”, per quanto se ne senta il tocco, la voce è sempre unica sovrana e regina. Riesce a essere aliena e lontana, a respingere e a poi riconquistare e sedurre l’ascoltatore anche nel corso dello stesso brano.

Anche quando le ritmiche rallentano e il brano d’amore ai tempi di Kelela guarda a un futuro molto prossimo e umano, si resta storditi e senza fiato: in “Jupiter”, scritta insieme a Romy degli xx a testimoniare questa intelligente propensione pop, e in “Better” dove riemerge tutto il suo background R&B afro-americano. Una Solange androide, molto più che una FKA Twigs americana.

Grazie alla classe e al gusto di figure come Kelela, la musica contemporanea continua ad abbattere le barriere musicali tra musica per tutti e musica ricercata. Grazie a lei e ad altre figure a lei affini, il pop, di cui “Take Me Apart” è uno dei manifesti più significativi e raffinati, sta vivendo uno dei momenti più alti della sua storia.

87/100