POP .1280, “Paradise” (Sacred Bones, 2016)

sbr145-pop1280-300_1024x1024Voi pensate mai a quali droghe possono essere state inventate in quegli scenari sci-fi molto kitsch, pieni di luci al neon e arti automatici, realtà virtuali ed economia del bit coin?
Io in continuazione (forse perché di solito queste storie generano situazioni e personaggi così marci che sarebbe strano non chiederselo), e banalmente immagino decine di composti sintetici molto speedosi ed alienanti e pieni zeppi di allucinazioni per scampare a quello stato di polizia grigio ed opprimente.
E se continuiamo ad avvicinarci passo dopo passo al nostro amato stato di polizia, probabilmente (e scontatamente) tra sessant’anni un bong continuerà a scaldare più cuori di adolescenti brufolosi di cento compostoni futuristici che non la fanno prendere male.

Ma qualcuno già ora deve avere roba del genere e io sarei decisamente convinto di prenderla ad un concerto dei Pop .1280, che spuntano dritti dritti da uno dei film a cui si faceva riferimento prima. Il gruppo di Brooklyn, arrivato ormai al loro terzo disco, presenta con “Paradise” la sua visione cupissima martellante e fluida della musica del post-2000 schiaffandoci in faccia tutto un immaginario futuristico che negli ultimi anni sta sempre più prendendo piede (ma di cui non parleremo perché poco pertinente ed interessante) con un piede e mezzo nel passato ma che, nonostante le premesse, riesce comunque a suonare interessante.

Il disco si articola come in una narrazione in tre fasi: la prima è un groviglio rumoristico plasticoso in cui drum machine e synth la fanno da padroni, per poi lasciare spazio ad una momentanea contemplazione sonora centrale, in cui delineano paesaggi quasi drone, per poi tornare nel finale alle sonorità iniziali inasprendole ancora di più e dando loro una vena aggressiva decisamente punk.

Lo scopo del lavoro del quartetto di New York è molto facile da scovare: de-umanizzare il prorpio sound, cercando di fondere a loro modo i primi Nine Inch Nails con i Kraftwek, con risultati un po’ altalenanti. Operazione simile a quella di Luis Vasquez, che con il suo progetto The Soft Moon giusto l’anno scorso ci ha regalato un disco pazzesco dalle sonorità più paranoidi e marce. I Pop .1280 invece vanno ad occupare quello spazio più riottoso, movimentato e cinico.
E anche se come detto prima i nostri riprendono a piene mani dal mondo cyberpunk et similia, è logico immaginarli come una naturale trasposizione del momento sociale e tecnico di chi con spinta libertaria e rivoltosa faceva punk alla fine dei ’70, tanto che potreste sentire vaghi echi dei Crass, forse non intenzionali, ma l’attitude è proprio quella.

Sarà questo il suono del terzo millennio? Una cosa è certa, questa sarà l’epoca delle ibridazioni, e non mi stupirei certo di trovare tra qualche anno roba del genere in un club sotterraneo di Berlino e pogare insieme ad amanti della techno. Il futuro è fluido, proprio come la musica dei Pop .1280. E proprio come lei è anche bello marcio.

72/100

(Matteo Mannocci)