NIGHT BEATS, “Who Sold My Generation” (Heavenly Recordings, 2016)

12187785_10153257314007406_3276570848398209728_nSi avverte una sorta di malinconia nostalgica – o nostalgia malinconica – nel titolo di questo terzo album dei Night Beats, trio garage-psych di Seattle. Un sentimento che pervade anche l’intero disco, più e meglio dei due che l’hanno preceduto, l’esordio omonimo del 2011 e “Sonic Boom” del 2013. “Who Sold My Generation” infatti è un album fortemente legato al sound anni ’60, a quel caleidoscopio di rock’n’roll, psichedelia e garage capace di permeare così a fondo nella cultura e nell’immaginario musicale (e non) da risultare ancora oggi riconoscibile e identitario. Un’epoca, quella dei tardi Sixties, che alle nostre orecchie risuona al tempo stesso lontana e vicina, anche e soprattutto per merito di band e artisti del calibro di The Black Angels, Ty Segall, Thee Oh Sees – per dirne tre – che negli ultimi hanno saputo a loro modo dare un’accezione contemporanea al garage-psych rock. Ed è proprio su questa scia che i Night Beats provano, e riescono, ad inserirsi.

Per rendersene conto potrebbero bastare anche solo i 4 minuti e 11 secondi di lisergia e sciamanesimo del primo brano estratto “Sunday Mourning”, ma c’è altro materiale per rinforzare la tesi. Dai primi secondi della opening track “Celebration #1” in poi, ci si accorge infatti di come “Who Sold My Generation” sia a tutti gli effetti un lungo e piacevolissimo trip musicale, durante il quale si incontrano in maniera non troppo distinta gli echi e le sagome di The Seeds, Donovan, The Cramps, The Yardbirds (tanto per fare un po’ di nomi).

E così siamo travolti in un flusso mai domo, che dalle chitarre tex-mex di “Shangri-Lah” ci conduce alle esagitazioni à la Lux Interior di “Egypst Berry”, al rock’n’roll frenetico di “No Cops”, alle sensualità hendrixiane di “Burn To Breathe” o stoogesiane di “Last Train To Jordan”, addirittura alla sorpresa di un corno a cadenzare i riff di “Bad Love”.
Do you need more?

70/100

(Enrico Stradi)