La Top 7 dei dischi soul/funky da riscoprire

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Essere nati negli anni 70 non significa necessariamente conoscerli appieno.
Per chi come me poi, classe 76, è stato svezzato nel colorato mondo degli anni ’80 e ha trovato la sua identità musicale nei ’90, guardare indietro di due lustri è ancora più affascinante.
Se poi qualcuno in quei favolosi anni di rumore mi avesse detto che avrei stilato una top 7 di dischi soul/funky dimenticati, gli avrei tirato in faccia la mia camicia di flanella. Invece succede che diventi grande, diventi più sensibile e apprezzi il senso di libertà che ti concede il ballo; ti rendi poi conto che sarebbe triste vivere senza un disco di Marvin Gaye in casa e fai la stessa cosa che hai fatto con tutte le ossessioni di un certo Cobain. Scavi, scavi, scavi e trovi un ulteriore mondo dentro un mondo che non conosci ancora bene ma che ti rappresenta particolarmente.

7. BABY HUEY, “The Baby Huey Story – The Living Legend” (1971)

Il gigante James Thomas Ramsey, morto a 26 anni per arresto cardiaco nel 1970, anticipa e sfata il mito del club 27. Maledetto e tecnicamente inarrivabile (per via di una voce potentissima) viene dimenticato e poi con gli anni meritatamente riscoperto. Paradossalmente un corpo troppo piccolo per contenere tutta questa energia. Un disco postumo troppo bello e prezioso per non essere menzionato.

6. EDWIN BIRDSONG, “Dance of Survival” (1975)

Il fatidico e difficile terzo disco, che vende poco e diventa immancabilmente un capolavoro nonché un pezzo raro. Uscito per una piccola etichetta dopo i comunque eccelsi “What It Is” e “Supernatural”, questo “Dance of Survival” non si pone limiti; il funk diventa massa informe e si contamina con la psichedelia (ma non solo) senza aver paura di non seguire una linea guida. Alieno e sghembo perciò imprescindibile.

5. MARIE QUEENIE LYONS, “Soul Fever” (1970)

Provate voi a tirar fuori la personalità dopo aver fatto la corista per James Brown, Jerry Lee Lewis e Fats Domino. Marie Queenie Lyons lo fa con “Soul Fever”, unico album inciso da questa ragazza della Lousiana che dimostra, oltre ad una padronanza della materia ed una carica sensuale incredibile, la capacità di scrivere brani propri e reinterpretare brani classici con naturale disinvoltura. Da fare ascoltare a chi cita spesso (e a sproposito) le parole Talento e Passione. Qui ce n’è da vendere.

4. SHUGGIE OTIS, “Inspiration Information” (1974)

Quante volte viene citato Shaggie Otis quando si vuole definire quella terra di mezzo fra la musica nera e il resto del mondo? Sensibilità a braccetto col groove, romanticismo che prende il sole senza disdegnare l’approccio più freak, melodie soul che si sciolgono e divengono psichedelia. A quei tempi un ibrido di difficile classificazione. Ora un esempio alto di contaminazione fra black music e pop.

3. DAMN SAM THE MIRACLE MAN & THE SOUL CONGREGATION, S/T (1970)

Tre voci, e non sono “Il Volo”. Il volo lo prendono, in questo straordinario connubio di Soul tiratissimo ed Heavy Funk tribale , i tre afroamericani A.J. Branham, O.C. Tolber e Rudy Thompson. Unico e raro disco del trio uscito originariamente nel 70 per una piccola etichetta americana, finalmente ristampato per la gioia di quelli come noi che alla musica chiedono solo Verità.

2. RIKKI ILILONGA, “Sunshine Love” (1976)

In Africa, come in ogni posto del mondo, la cultura della rock star si diffonde a macchia d’olio. Tutti vogliono avere il potere di catalizzare l’attenzione verso l’arte, tutti vogliono essere Jimi Hendrix, tutti vogliono far esplodere bombe d’ormoni come hanno fatto i Beatles. In Zambia, Rikki Ililonga imbraccia una chitarra e nasce lo Zamrock (che fantasia sti giornalisti). Lavoro funky per l’approccio selvaggio, rock per il modo di guidare la band e di porsi in pubblico, soul per quell’anima sicuramente libera e pura.

1. GRODECK WHIPPERJENNY – Sho is Funky Down Here (1971)

I nostri Calibro 35 hanno preso a modello i polizieschi degli anni 70 e ci hanno costruito sopra una carriera di tutto rispetto. Questa band di Cincinnati invece intesta al padrino del soul un disco che non è altro che la voglia di far conoscere a più gente possibile la musica soul però “suonata”. Interamente strumentali, queste canzoni accreditate al tastierista David Matthews e a James Brown stesso, sono fuzz/soul/funky style che ai nostri Calibro piacerebbero non poco.