Intervista ai Lucius

e7d5848de5c51e1db1e31e03455693bb

I Lucius sono l’ennesima next big thing di Brooklyn. Partendo da un’estetica anni Sessanta, il loro nome è diventato uno dei più gettonati della Grande Mela con melodie killer e un sofisticato pop tra eredità folk e gusto sintetico. Anche grazie alle voci sbarazzine delle due vocalist dalle sembianze gemelle Jess Wolfe e Holly Laessig che accompagnano Dan Molad, Peter Lalish e Andrew Burri. L’album d’esordio “Wildewoman” è uscito lo scorso anno ed è distribuito da qualche mese in Europa dalla Mom+Pop. Noi li seguiamo da un po’ (vedi link) e siamo pronti a scommettere sulla loro esplosione. I cinque arriveranno domenica 2 novembre per un’esclusiva data al Circolo Magnolia di Milano, e sono stati scelti ieri da Jack White in apertura di otto date europee del suo tour. Abbiamo parlato ovviamente, delle loro influenze e del loro fan più illustre e improbabile: l’economista ed editorialista del New York Times Paul Krugman.
E’ appena uscito il loro nuovo video, “Hey Doreen” che vi proponiamo di seguito con l’intervista alla band.

Iniziamo dal nome, se volete…
Ci chiamiamo così dal nome del cane di Jess che aveva stravagante senso dell’humour e un grande spirito.
Provate a descrivere in tre parole la vostra proposta musicale.
Might Get Crazy (potere/potreste diventare matti)
Credo che uno dei punti di forza del progetto, oltre alla potenza pop dei vostri brani, sia rappresentato dal vostro look molto curato e dai rimandi evidentemente retrò, Sixties. Oltre che dal modo in cui vi muovete e tenete il palco, quasi come un musical. Siete d’accordo?
La band funziona come una macchina. Ogni parte è unica e assolve a un compito specifico, ma allo stesso siamo tutti parte di unico sistema a motore. Ciò che vedete sul palco ha una simmetria a specchio con le nostre due cantanti e la loro posizione, i loro movimenti sincronizzati. Credo ci sia un forte equilibrio sul palco, anche dal punto di vista estetico. Se parliamo dell’aspetto musicale, la sostanza dei brani non cambia. Alcuni suonano pomposi e magniloquenti, altri sono più folk ed essenziali, ma non cambia quell’equilibrio estetico nello show. Credo che il pubblico soprattutto dal vivo possa percepire bene la nostra forza creativa.
Non trovate che questa nostalgia estetica Sixties possa costituire un rischio nel farvi etichettare come l’ennesima band revival? Sono convinto che il vostro sound ha qualcosa in più, ha dei tratti molto poco derivativi e una struttura molto più articolata e ricca di contaminazioni.
Siamo convinti che esistano delle radici ineludibili nella musica della generazione dei nostri genitori e dei nostri nonni. Pensate al rock’n’roll, al soul e al jazz degli alberi. Sono un patrimonio di tutta la musica americana e ancora oggi suonano maledettamente contemporanee. Roy Orbison, Sam Cooke, Stevie Wonder, Nina Simone, Phil Spector e Joe Meek. Diverse epoche, diversi spunti che hanno ispirato in maniera decisa il sound dei Lucius e ne hanno plasmato le nostre linee vocali. A volte ho notato che quando registriamo con il nostro grandissimo batterista Dan (che ha prodotto tutto ciò che è finora uscito a nome Lucius) per quanto ci si possa spingere in là nelle armonie tra arrangiamenti e voci, c’è sempre qualcosa di inspiegabilmente d’annata nel suo gusto. Ci senti delle voci background che sembrano quelle di Ray Charles, delle ritmiche che, estrapolate dal contesto, potrebbero tranquillamente sembrare prese dalla backing band di Stevie Wonder.

Non siete newyorkesi doc, venite a vario titolo da altre aree della East Coast, da Boston e dintorni, ma vi siete conosciuti un po’ per caso a New York e avete partorito tutte le vostre produzioni dalle parti di Ditmas Park. In che misura pensate che New York e nella fattispecie Brooklyn abbiano influenzato le vostre sonorità?
New York è un posto frenetico, c’è una sorta di energia cinetica che ti circonda in ogni angolo, in ogni istante. Hai spunti e input multidirezionali, ma non è mai stata una metà facile per un’artista. Tuttora è praticamente impossibile se non racimoli un po’ di soldi. Trovo che questa precarietà abbia reso molto forte il senso di solidarietà e comunità tra band e artisti. Ci si conosce tutti in fretta, senza snobismo. Non credo che questo senso di comunità sia lo stesso tra l’investitore finanziario e la donna milionaria coi suoi cagnotti ben curati dell’Upper East Side di Manhattan. Credo che in fondo, a prescindere dai generi, noi musicisti newyorkesi o newyorkesi d’adozione siamo tutti sulla stessa barca. E lo stesso discorso vale per tutti gli artisti: pittori, designer, chef, insegnanti di yoga, attori, etc. Credo che quest’aria di comunità che si respira dove abitiamo sia una forte ispirazione per i Lucius.
Credete quindi che la scena di Brooklyn resista ancora? Nonostante tutti i problemi di rincaro degli affitti e di venue indipendenti che stanno chiudendo i battenti (285 Kent, Death By Audio e Glasslands, gli ultimi esempi dalle parti della Kent Avenue a Williamsburg) e che io personalmente percepivo come delle venue chiave di quel senso di comunità indipendente molto evidente in quelle strade…

Assolutamente sì. Brooklyn è cresciuta tantissimo negli ultimi dieci anni. Trovo si sia arrivati a una fase di svolta. Certamente non è più quella metà per artisti in cerca di spazi e stanze a prezzi ragionevoli nel cuore di New York, ma una sorta di meta glamour. Ci sono degli appartamenti in condomini costosissimi ora che stanno trasformando lo skyline anche al di qua dell’East River. Bene o male che sia, trovo sia inevitabile. E’ un qualcosa di intrinsecamente newyorkese: un continuo mutamento. Se una venue chiude per l’affitto alto, ne nasceranno almeno altre due in posti più convenienti.

Siete noti per avere un fan illustre, l’economista Paul Krugman che non ha mai smesso di tessere lodi nei vostri riguardi anche sul suo blog personale, oltre che sulle pagine del New York Times. L’avete incontrato alla fine?
Alla fine ce l’abbiamo fatta dopo che è venuto a vederci a uno dei nostri show insieme a sua figlia. Si è presentato backstage per presentarsi per dirci di persona quanto ami la nostra musica. E’ una storia surreale che una persona così nota e influente dal punto di vista intellettuale fosse venuta a presentarsi a noi “perfetti sconosciuti”. Tutto ciò che abbiamo fatto è stato evitare di dire qualcosa di troppo stupido.
Una domanda che faccio spesso, in tempi di reunion e grandi ritorni live. C’è un artista al quale fareste da supporto gratuitamente, giusto per l’onore di seguirlo in tour? O un Krugman che sognereste di conquistare, in un ambito più musicale.
Se ricevessimo la benedizione di Paul McCartney credo che potremmo morire tutti e cinque felici e contenti.
E’ la prima volta che venite a suonare in Italia. Tutti tessono lodi, un po’ come Krugman, per molti aspetti dell’Italia: il cibo, l’arte, il clima. Risulta più raro rintracciare negli artisti stranieri dei riferimenti alla musica italiana contemporanea.
E’ sempre eccitante suonare in nuove nazioni e percepire la diversa reazione ai nostri show. A dirti la verità non abbiamo mai sentito parlare di band italiane. L’Italia dalle nostre parti è vista come una strana isola al centro dell’Europa dal punto di vista delle novità musicali. So che lì va molto la musica da clubbing e il metal, ma sono certo di sbagliarmi. Siamo fermi alla musica dei Goblin.
Per finire, consigliateci qualche nome semi-sconosciuto da andare a scoprire…
Here We Go Magic, Tall Tall Trees, Lapland, Yellowbirds, Doe Paoro, Elaphant, JD Mcpherson, Broncho, Death Vessel, You Won’t, Plume Giant, The Courtneys e il nuovo LP dei Belle Brigade che spacca sul serio.