La Top 7 delle migliori canzoni di Beck

BECK 1

Nei giorni di uscita di “Morning phase”, la redazione di Kalporz si è arrovellata sulle 7 canzoni perfette di Beck e – con le immancabili esclusioni e scelte difficili – questa è la fotografia che ne è scaturita.

7. “Soldier Jane” (da “The Information”, 2006)

Dalle song muovi-culo degli Anni ’90, Beck si è spostato nel decennio successivo verso un’estati contemplativa, comunque mai facile e sempre (de)strutturata, di cui questa “Soldier Jane” può essere considerata una pedina importante. Vi si colgono nitidamente i tratteggi sonori aperti di Nigel Godrich, l’architettura si fa spaziale, la progressione degli accordi che cita – probabilmente inconsciamente – “New Gold Dream” dei Simple Minds. Ma il “sogno” c’entra anche in “Soldier Jane”: trattasi infatti di uno dei picchi della produzione onirica del folletto di Los Angeles.

(Paolo Bardelli)

6. “Where It’s At” (da “Odelay”, 1996)

C’è stato un tempo in cui Beck era il numero uno. Avanguardia. Eppure riascoltandolo oggi l’impressione è certo quella di un classico, ma in quanto tale desueto. Era la fine degli anni ’90, “Odelay”, “Where It’s At”, un citazionismo precursore di tendenze così recenti: registrazioni sull’educazione sessuale degli anni ’60, musicisti dei ’70, linee tratte da seminali singoli electro (“Needle To The Groove”). In quegli anni in Italia Beck andava di moda, era parte di quell’immaginario sottoculturale “alternativo” tipico dei paesi industriali maturi, Stati Uniti, UK, Europa. L’Italia non è più un paese europeo da almeno dieci anni, le sue sottoculture sono ferme ai primi anni zero. Sarà per questo che Beck suona così anacronistico.

(Francesco Marchesi)

5. “Nobody’s fault but my own” (da “Mutations”, 1998)

Nel 1998 esce “Mutations”. Beck, artista eclettico e furbo – di quella astuzia compositiva che ci piace – riesce a stupire. Abbandona l’estasi caotica e labirintica di “Odelay” per un suono più pulito, scarno ed acustico. Una pazzia, forse. Ma Beck non è un di quei freak per partito preso, è come lo si vede e sente: un musicista a 360 gradi. “Nobody’s fault but my own”, posta in apertura dopo “Cold Brains”, è una ballata acustica piano voce, violoncello, viola, con un tocco esotico, dato dal sitar e dal sarangi. Colpisce al primo colpo : un pezzo, in apparenza semplice, nasconde un retrogusto psichedelico e distorto, la voce di Beck – stranamente soave e leggiadra- è disturbata piacevolmente da suggestioni orientaleggianti. Come al solito Beck fonde anime musicali diverse, lo fa in una canzone minimale. Se non è arte con la A maiuscola, poco ci manca.

(Monica Mazzoli)

4. “Devils Haircut” (da “Odelay”, 1996)

Il brano che introduce la ricchezza sonora di “Odelay” è tanto semplice quanto, allo stesso tempo, complesso e stratificato. La semplicità è l’effetto del suo essere diretto con quel riff di chitarra ridondante. In realtà è un puzzle di vari samples che la mente di Beck ha assemblato. Accompagnato da un video che contiene una chiara citazione cinematografica (“Midnight cowboy” che qui in Italia conosciamo come “Un uomo da marciapiede”), “Devil’s haircut” è un bell’esempio della capacità di Beck di manipolare la forma canzone a suo piacimento, mantenendosi però sui binari della fruibilità.

(Francesco Melis)

3. “Loser” (da “Mellow Gold”, 1994)

La voce più vera e significativa del disorientamento dei primi anni Novanta, dell’America che cerca di uscire a fatica dalle pesanti contraddizioni degli anni Ottanta. Appena tornato dal vagabondaggio da homeless bohemien a New York, Beck si reimmerge nella Los Angeles segnata dai riot del 1992 in uno dei periodi più violenti e tragici della storia della Città degli Angeli.
“I Am A Loser” con tanto di verso tradotto per gli hermanos ispanici “Soy un perdidor” è un ritratto di quei tempi. Perfetto ponte tra la musica indipendente americana post-Reaganiana e l’hip hop a bassa fedeltà tipicamente losangelino. E’ la colonna sonora ideale per centinaia di migliaia di destini. Persi in un meltin pop unico di delinquenti, depressi, sventurati, sfigati, ambiziosi e disillusi di ogni genere ed etnia. Dopo questo brano c’è chi l’ha ribattezzato un Dylan della generazione slacker, più semplicemente Beck ha sempre fatto il cazzo che gli pare succhiando con maestria sensazioni e sonorità dei suoi tempi (hip hop/elettronica/breakbeat) e dei tempi che furono (folk/country/funky/blues). Senza mai inventare niente, ma riuscendo a essere sempre sul pezzo.

(Piero Merola)

2. “Lost Cause” (da “Sea Change”, 2002)

A tutti quelli bravi prima o poi capita quello che è successo a Beck all’inizio degli anni Zero: asciugatosi dai sudori dell’esordio e delle sperimentazioni con cui ha saltellato al di qua e al di là del confine del rock, il ragazzo diventato il simbolo dell’alternative americana decide di tirare fiato un attimo.
In “Sea Change”, che esce nel 2002, il suono rallenta e diventa rotondo, smussato negli angoli e negli spigoli che tanto piacevano a tutti, quasi ad addolcire malinconie e subbugli interiori che fino ad allora erano rimasti nascosti. Ed è “Lost Cause”, che si piazza forse non casualmente al centro del disco, a spiegarceli meglio. È la canzone che fa intravedere tutte le cose piccole ed enormi nascoste dentro Beck: i rimorsi e le colpe, gli occhi umidi e le ferite che sanguinano piano, qualcuno che si ama e che non c’è più. Con “Lost Cause” Beck disegna una riga e se la lascia alle spalle: è diventato grande, e finalmente.

(Enrico Stradi)

1. “Mixed Bizness” (da “Midnite Vultures”, 1999)

Come per l’hip-hop e il dolce e sussurrato cantautorato, anche il funky, per il losangelino Beck Hansen, non è uno stilema da ripetere in copia carbone. Miscelare generi e rimanere sempre fedele a se stesso, creando ritornelli killer e giocando con l’elettronica più minimale; questo in fin dei conti è il segreto che negli anni ha consacrato questo “Loser” dal cervello sempre sintonizzato nel presente. Non fa eccezione “Mixed Bizness” dal colorato e schizzato “Midnite Vultures”: fiati a profusione, falsetto, James Brown che cala acidi a piccole dosi e pelle nera che smette di diventare ossessione. Lo scoprii a ventitrè anni e ne rimasi folgorato.
Oggi che la black music per me non è soltanto un divagare fra rumore e r’n’r, questo brano fu il big bang di qualcosa che già esisteva ma che io non conoscevo. Involuzione che diventa evoluzione.

(Nicola Guerra)

20 febbraio 2014