La Top 7 delle migliori canzoni dei Pixies

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Torneranno fra poco dal vivo qui da noi (il 4 novembre), e già a molti partono i lacrimoni anche se non ci sarà Kim Deal. Ma quali sono le canzoni che vorremmo ascoltare quella sera? Queste andrebbero da dio. Ecco la Top 7 delle migliori canzoni dei Pixies, per Kalporz.

7. “Holiday Song” (da “Come on Pilgrim”, 1987)

“Holiday Song” è innanzitutto prova vocale maiuscola di un Black Francis urticante come il pensiero incestuoso del fratello verso la sorella. Che non può prescindere dal fantastico gioco di ricami al limite del feedback di Joey Santiago e dai cori di una ragazza che si è data il nome di un uomo, tale John Murphy e ha rubato il basso proprio alla sorella.
“A Story about a Boy who fell from Glory” è anche la nostra storia, di noi anti-eroi che non sappiamo resistere alle quotidiane tentazioni: biglietto da visita perfetto per una rock band tagliente come la lama di un rasoio, in testi e musica. In questi due minuti i Pixies racchiudono la furia del miglior punk e la lezione dei Violent Femmes, anticipando il movimento grunge.

(Matteo Maioli)

6. “Where Is My Mind?” (da “Surfer Rosa”, 1988)

Sarò banale, ma l’immaginario è l’immaginario. “Where Is My Mind?” rappresenta in sé un punto di rottura, una svolta, perché significa tanto l’apocalisse di quella scena finale (non dico nemmeno il titolo del film) sul finire del Millennio quando tutti eravamo pronti a bachi immaginari e periodi di crepuscolo a venire, quanto la disinfestazione da ogni patina da new gold dream del decennio edonista degli Eighties. E non è di poco conto che abbia significato in due decenni distinti, perché non è importante di che tribù sei, di che annata e di che casata, quello che passa – quando nell’aria viene sparata a tutto volume “Where Is My Mind?” – è che viene una gran voglia di spaccare un bel po’ di roba.

(Paolo Bardelli)

5. “Wave of Mutilation” (da “Doolittle”, 1989)

Dire tutto in due minuti. Mancano al giorno delle band indie – quando indie voleva dire indie ed era tutto fuorché superficiale e dispregiativo – in grado di scrivere pezzi del genere, così semplici e intensi. Un condensato di schiettezza e surrealismo mai pretenzioso nei testi, due riff in croce di facile presa, ritornello che trafigge il cuore. “Wave Of Mutilation” è un flash su un uomo d’affari che inscena un omicidio suicida cercando di lanciarsi giù da una rupe con la sua famiglia. Ma Black Francis potrebbe parlare di scimmie in paradiso, facce rotte o di chissà cos’altro. La sostanza non cambierebbe. Ci sono brani che si devono solo urlare.

(Piero Merola)

4. “Here comes your man” (da “Doolittle”, 1989)

All’apparenza “Here comes your man” è l’ennesima canzone d’amore, un po’ sui generis forse, ma pur sempre una pseudo romanticheria in musica. Il ritornello “You’ll never wait so long/Here comes your man/ Here comes your man/ Here comes your man” si muove in tal senso, o almeno così ci vuol far credere Francis Black. Si potrebbe parlare di uno scherzo in piena regola, di una velata presa in giro dell’ascoltatore. Perché in fondo il brano, pop dal retrogusto anni sessanta, non ha niente di romantico, tutt’altro: su ammissione dello stesso Francis Black il testo parla di vagabondi, ubriaconi, in viaggio su un treno, che muoiono nel terremoto della California. I Pixies si divertono a giocare sul concetto di “pop song”, sulla regola non scritta che, almeno in superficie, tutto debba sembrare lineare e limpido. Da un punto di vista strumentale tutto è perfetto: riff da manuale di Joey Santiago ed ottimo equilibrio tra voce maschile e femminile. Però, ecco, di solito, una canzone pop non racconta storie di fannulloni morti su un treno, nel bel mezzo di un terremoto. Una lezione di ironia e sarcasmo da parte di uno dei migliori gruppi dell’underground americano fine ’80 – inizio ’90.

(Monica Mazzoli)

3. “I Bleed” (da “Doolittle”, 1989)

Parte il giro di basso che ancora non ti sei ripreso dall’esaltante cavalcata di “Wave of Mutilation”, e quasi non ti rendi conto che è iniziato un nuovo brano. Eppure “as loud as hell” la canzone inizia a trascinarti via, con la sua suadente semplicità al limitar del pop: l’intreccio vocale tra Black Francis e Kim Deal parla di due caratteri solo casualmente – e per un breve lasso di tempo – in grado di coabitare nello stesso progetto (e nelle stesse canzoni). Eppure il miracolo di “I Bleed” è quello di una piccola gemma, scheggia impazzita che pacifica, urtica, squarcia e ironizza nello stesso momento. “As breathing flows my mind secedes… I Bleed!”, sentenzia Black Francis. E nessuno fatica a crederlo…

(Raffaele Meale)

2. “Caribou” (da “Come on Pilgrim”, 1987)

Il primo prezzo del primo (mini) album dei Pixies è un piccolo capolavoro espressionista, capace di racchiudere nei suoi 3 minuti di durata tutto ciò che ha reso questa band uno dei gruppi di alternative rock più importanti ed influenti di sempre. Il riff singhiozzante di Joe Santiago che apre il brano è talmente tagliente che c’è il rischio di farsi male solo ad ascoltarlo; poi entra in scena Black Francis con quell’indimenticabile “I live cement, I hate this street…” e la canzone si trasforma in una sorta d’inquietante invocazione primordiale. Dite addio alla disgustosa vita urbana, abbandonate la forma umana, pentitevi e reincarnatevi in qualcosa di diverso. Un caribou magari, perché no. Di pezzi indimenticabili i Pixies ne hanno scritti parecchi, ma questa piccola perla, capace di coinvolgere e sconvolgere allo stesso tempo, è senza dubbio uno dei loro picchi creativi.

(Stefano Solaro)

1. “Gouge Away” (da “Doolittle”, 1989)

“Gouge Away” è una canzone che racconta tutto dei Pixies. Dal basso in evidenza alle narrazioni degli pseudopsicodrammi dell’America weird, per giungere all’inversione topologica della tradizionale dinamica del pezzo rock alternativo. Tutte cose che i Pixies insegneranno alla generazione successiva. Una sintesi possibile forse solo in quella particolare collocazione intermedia, non esattamente post-punk dei primi ’80, ma al tempo stesso non ancora X Generation (ammesso che questa formula abbia mai significato qualcosa) dei ’90. Una unificazione profondamente originale – i Pixies forse incarnano come nessun altro questa caratteristica – di elementi però già ben conosciuti e sperimentati altrove. Un processo di composizione ed articolazione del già noto che è, con poche varianti, esattamente la maniera in cui avviene oggi, e non da poco, l’innovazione in campo musicale. Proprio questa è ancora, probabilmente, l’eredità più importante e vitale dell’esperienza dei Pixies.

(Francesco Marchesi)