ELLIOTT SMITH, “XO” quindici anni dopo

9301629_origMi sarebbe piaciuto recensire questo disco nel 1998, anno nel quale vide la luce, ma siamo purtroppo nel 2013 ed Elliott Smith non è più con noi da quel maledetto 21 ottobre di dieci anni fa, quando fu trovato senza vita per tre coltellate al petto. Mi piacerebbe forse averlo fatto prima, ma ora starei comunque male, convinto che quella carriera circondata da vizi avrebbe dovuto avere ancora una coda luminosa, come le comete, che difficilmente transitano nei cieli odierni.

Musicista inizialmente acceso dai fuochi sacri del grunge, raggiunse notorietà con gli Heatmiser ma ben presto si rese conto di avere una grandissima identità musicale, abbandonò quindi il rumore (anche se dalla sua testa non se ne andò mai) e decise di trasformare in musica i sentimenti umani. Tre album per voce e chitarra (rispettivamente “Roman Candle”, “Elliot t Smith” e “Either or”) fecero di lui un nuovo eroe romantico; non solo per via di quei testi tanto personali e vissuti, ma per quella voce cosi sofferta che accarezzava ma non dava sicurezze. In ogni angolo del globo qualcuno si riconosceva in Elliott Smith, nei suoi versi si leggeva una poesia decadente alla quale era facile aggrapparsi e perdersi; per il musicista il primo periodo di popolarità fu anche l’inizio della lotta per mantenere la sua integrità artistica; ma purtroppo l’arte fu inversamente proporzionale alla sua salute fisica e psichica. Quello che a noi rimane, oltre ai fatti di cronaca che lo descrivevano un tossico alcolizzato, resta la musica, quella meraviglia che ha la capacità di farci sognare ad occhi aperti e cullarci dolcemente la notte.

Con “XO” tutto diviene magico, la voce e la chitarra trovano la cornice ideale negli studi lussuosi di Los Angeles, e la musica di Smith si tinge di mille colori, fra tastiere vintage, archi, riverberi di musica anni 60 con i Beatles sempre nel cuore. Messo a paragone con i lavori precedenti XO potrebbe sembrare addirittura un disco barocco, ma la bellezza delle liriche e la linearità delle strutture lo rende semplicemente un capolavoro; Smith soppesava gli strumenti come fossero acquarelli, pastelli o carboncini e il risultato era sempre un colore tenue tanto vicino alla realtà, che solo i grandi artisti riescono a rappresentare.

“Bled White” ad esempio è un delicato ritratto del nostro tempo; “Baby Britain” pulsa di vita nella sua semplicità e la romantica “Waltz # 1” danza con noi mentre fuori le strade si ricoprono di foglie autunnali. Vorrei che da qui in poi non ci fosse stato più nulla; niente cliniche per la disintossicazione, niente “Figure 8” (benedetto da critica e pubblico) ne crisi depressive per un album che vide la luce solo dopo la sua (prematura) scomparsa (“From The Basement On The Hill”).

Vorrei solo pensare a un esilio nel cielo stellato; alzare ogni tanto il viso e vedere quella cometa continuare a brillare.

100/100

(Nicola Guerra)

21 ottobre 2013