MATMOS, “The Marriage Of The True Mind” (Thrill Jockey, 2013)

Mi piacerebbe sorvolare, ma per un disco del genere c’è bisogno di raccontare tutto il concetto che sottende l’opera. Mon diev… Ebbene, tra le ultime fissazioni dei due Matmos c’è la parapsicologia. Tutto è spiegato in parte dalla copertina. Si prende una cavia (umana), la si stende sul lettino, le si coprono gli occhi e le si propina un sottofondo sonoro tipo fruscio statico. A questo punto la cavia dovrebbe viaggiare al di là del proprio ego trasmettendo all’altro (lo scienziato, il lavativo, o il musicista che guida l’esperimento) un’idea. Quale idea? Che brano devono suonare i Matmos nel prossimo disco? Che notine devono mettere sullo spartito? La cosa è piaciuta ai due produttori e di questi esperimenti ne hanno fatti a iosa coinvolgendo un sacco di sventurati. Sicuramente più di nove, e il risultato è questo matrimonio delle menti vere.

Ora passiamo all’effetto, cioè a quanto i Matmos hanno realizzato su disco. A mio modesto parere gli influssi di patafisica e parapsicologici pseudo-ganzfeld hanno inciso poco, pochissimo, com’è ovvio che sia. I Matmos non sono degli sprovveduti e hanno una loro struttura estetica ben consolidata. Pur giocando a fare gli alchimisti e poeti surrealisti non possono snaturare il loro modus operandi né il loro gusto. Così le pazzie che uno si aspetterebbe fungono solo da accessorio. Un accento afro lì, un giro psichedelico da Alice Nel Paese delle Meraviglie lì, una partitura più jazzata in questo pezzo e una situazione più esotica in quell’altro pezzo. Poi la sostanza non cambia. Matmos fino al midollo. E per Matmos-style naturalmente intendo qualcosa di poco convenzionale, che parte dell’elettronica para-glitch, ferma a cinque centimetri dal limite della techno, per finire nell’ambient cogitabonda e puntinista o nell’electro-acustica domestica da iMac. C’è da aspettarsi dunque il solito imprevedibile guazzabuglio di elettronica intellettualistica. Rumori concreti riadattati in partitura moderna che fanno il verso al componimento classico. La scemenza pop che si dilata e si contorce e si fissa per infastidire (sentite il primo brano “You”, assai antipatico) e quindi incuriosire… Roba così, tecnicamente ineccepibile, vagamente divertente, ma praticamente inaccettabile. La novità è data soprattutto dai limitati accenti sinistri, procedimenti inquietanti, chiacchierate di sottofondo alienate e confusionarie che ci riportano a uno stato onirico da bad-trip. Ma alla fine l’umore generale è positivo, meditativo e buddhista (lo dico con disprezzo, perdonatemi discepoli di Buddha), come il duo, nel bene o nel male, non può non essere.

Quindi nulla di speciale, almeno in casa Matmos. Ma se vi piacciono le pazzie e l’elettronica sedicente concettuale, il disco è innegabilmente confezionato con cura, studiato nei passaggi e ben missato. Se ci risparmiavano la stronzata programmatica e tutta la poetica di concetto fantascientifica lo avremmo preso meglio questo disco. Sicuramente. Facendo uno sforzo di astrazione totale, che supera tutte le sovrastrutture culturali e formali della band, diciamo che lo salviamo. Siamo buoni, illuminati, quasi quanto Buddha. E allora, gli diamo la sufficienza.

60/100

(Giuseppe Franza)

03 marzo 2013

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