Emeralds e Six Organs Of Admittance, Circolo Arci Caracol, Pisa, 15 e 17 settembre 2011

La stagione del Caracol, locale pisano in cui lo studente universitario medio può trovare qualche ora di svago abbastanza cool mantenendo però un profilo adeguatamente basso, con annesso cinismo d’ordinanza, riprende quest’anno con alcune promesse: in primo luogo quella relativa al sogno di ogni avventore dell’accogliente, ma talvolta decisamente claustrofobico club, l’installazione dell’agognata aria condizionata, ancora di salvezza nelle serate più affollate. Ma soprattutto c’è voglia di vedere all’opera i frutti della notevole campagna acquisti estiva, i cui primi esponenti sono, in serate quasi consecutive, Emeralds e Six Organs Of Admittance. Presenze che, insieme a quella, ad esempio, di un Mick Harvey, confermano una linea che al contenimento dei costi, affianca una sviluppata conoscenza delle pieghe del panorama musicale contemporaneo, ed una capacità di attrazione e ricerca purtroppo merce rara alle nostre latitudini.

Quando, giovedì 15 settembre, gli Emeralds si presentano a Pisa l’atmosfera della serata è segnata da almeno due elementi negativi: il pubblico è piuttosto numeroso, ma praticamente nessuno degli avventori conosce il gruppo che sta per esibirsi, il fine è quindi unicamente il classico “far serata”, ed eventualmente pronto ad andarsene. Ciò indubbiamente costituisce un’altra nota di merito al lavoro di alfabetizzazione svolto dal Caracol, che come ogni proposta culturale che di una certa qualità mira a far avvicinare il pubblico alle proprie preferenze, piuttosto che adeguarsi ad un mitico quanto oscillante senso comune. Detto questo, da un uditorio composto in gran parte da studenti universitari ci si aspetterebbe qualcosa di diverso. Secondo elemento allarmante: non funziona l’aria condizionata.
Al contrario il gruppo di Cleveland funziona, di più, ormai sembra viaggiare col pilota automatico. Il synth-pop psichedelico, venato di soluzioni ambient e riverberi chitarristici, mostra infatti ogni sua qualità nell’ambito di uno spazio piccolo e compatto, imprigionando l’immaginazione del pubblico in un mondo composto di pacifici corsi d’acqua ed affascinanti, ma non inquietanti, distese di grandi alberi. In altre parole, fonde con sapienza il prodotto sonoro con ciò che viene proiettato alle spalle del gruppo: meglio, sulla maglie bianche indossate da Steve Hauschildt e John Elliott. Do it yourself.
L’esibizione, centrata sul recente “Does It Look Like I’m Here?”, nominato per altro album dell’anno 2010 da Drowned In Sound, risulta alla fine piuttosto breve, ma segnata dalla grande qualità e coesione di un suono dal quale non è semplice pensare cosa sia possibile estrarre ulteriormente. Gli Emeralds si confermano realtà solida della musica contemporanea, quanto futuribile è invece difficile stabilirlo, ma se è persino stato azzardato un paragone con gli ultimi Animal Collective un motivo dovrà pur esserci.

A poche ore di distanza, sabato 17 settembre, è poi la volta di Ben Chasny, alias Six Organs Of Admittance, dando così luogo ad una doppietta inusuale per l’ambiente culturale pisano. Adesso, almeno all’inizio, sembra presente quell’aria da piccolo grande evento che l’arrivo del chitarrista del nord della California merita: inoltre è partita l’aria condizionata e forse per questo il pubblico sembra dotato di una maggiore consapevolezza.
Preceduto da (R), cioè Fabrizio Modenese Palumbo dei Larsen, il quale tra un litigio con una sedia e vari maltrattamenti inflitti alla sua chitarra, si impone con un show noise tutt’altro che trascurabile, Chasny avvicina la platea con la flemma e la calma che gli appartengono, introducendo un immaginario che, seppur prodotto da suoni così differenti, non risulta alla fine eccessivamente distante da quello degli Emeralds. In un impasto di pezzi recenti, tratti in particolare dai due ultimi esemplari del ponderoso archivio Six Organs “Asleep On The Foodplain” e “Maria Kapel”, e canzoni ormai classiche di quel campo indefinibile a nome nu-folk, tra melodie in grado di far riemergere le radici meno urbane del genere e fingerpicking alla John Fahey, ha inizio una immersione collettiva in armonie roots che mediano l’accesso a desolate quanto vivide percezioni del mondo.
È nel momento della massima catarsi, del completo abbandonarsi agli origami di Ben Chasny, che l’ascoltatore si accorge però delle voci in sottofondo, nello specifico, quelle provenienti dal bar. Una singolare colonna sonora alla colonna sonora che non abbandonerà il concerto fino al suo termine.
Tutto questo non impedisce di valutare l’esibizione come positiva, forse ottima, certamente suggestiva come la si attendeva, ma assicura altrettanto che il pubblico universitario non è più quello di una volta.

(Francesco Marchesi)
(foto di Ben Chasny di Elisa Ambrogio)

25 Ottobre 2011

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