ONE DIMENSIONAL MAN, “A Better Man” (La Tempesta, 2011)

Dai One Dimensional Man al Teatro degli orrori, dalle letture di Majakovskij ai dibatti su Facebook (vedi quello su Red Ronnie e figlia o quello sui Perni monconi)…
Torna Pierpaolo Capovilla e la sua banda, più che mai convinti, a quanto pare, che dividersi così, passando da un teatro all’altro, non sia affatto fuorviante, e che a patirne alla fine non siano certo qualità, creatività e prodotto finale. Sicuri che una buona dose di collaborazioni (Aucan, Oxbow, Bob Rifo, Justin Trosper degli Unwound, Jacopo Battaglia, Enrico Gabrielli, ecc) e l’insospettabilità morale dell’etichetta La Tempesta siano più che sufficienti a garantire un riscontro positivo. Che basti tutto questo per fare di un album e di un uomo: “A better man”.

Il disco si apre con la title-track cantata a due voci con Katla Hausmann, e fa subito effetto non capire bene di cosa stia parlando Capovilla, visto che l’ultima volta che era stato One dimensional risaliva ormai al 2004 (“Take me away”). Da allora l’esperienza “Teatrale” se l’era portato via, insieme al fedelissimo Giulio Ragno Favero, restituendogli l’esigenza di esprimersi nella sua lingua madre, e dandogli così modo di allargare significativamente la cerchia di adepti, accorsi senza meno allo spettacolo degli Orrori, attratti dal karisma di questo uomo serenamente diviso tra il ruolo di cameriere e quello di rockstar. La prima canzone dell’album scorre leggera, senza lasciare traccia alcuna, tuttavia i due minuti e venti di durata ne giustificano un potenziale da intro. La progressione electro della seguente “Fly” è accettabile, ma le voci e il tema di base non convincono, è già stato fatto, si sente. Così, quasi senza volerlo, la mente s’adombra e si rifugia nell’immagine di Randy the Ram, il wrestler scimmione che s’attacca a un boccale di birra e prende a berciare che questa sì ch’è musica, yeah! E qui non abbiamo i Guns and Roses a girare sul piatto, semmai i Nine Inch Nails. I testi sono in english, of course, ma già dai titoli non proprio capziosi o eccentrici puoi sgamare l’arcano della band straniera che vuol parlare al mondo ribadendo all’infinito concetti-espedienti oramai logori fino alla nausea (“Fly”, “Save me”, “The clock is the king”, “Close my eyes”, “Crazy”), pesanti come macigni (“The wine that I drink”, “Too much”), pronunciati non c’è male ma sintomo di un entusiasmo di fondo che non c’è più.
E con la terza “A measure of my breath” ecco giungere i primi sostanziali cedimenti, il riff si fa vago e noise in modo preoccupante, l’urlo del leader infuria fino a raggiungere lo spazio interplanetario, ma è un urlo disperato, e a un certo punto viene istintivo chiedersi, con tutto il rispetto per l’urlo, quand’è che i ragazzi ci daranno un taglio. Quando ciò avviene, nemmeno il tempo di riprendere fiato che la chitarra torna a puntare le stelle introducendo “This crazy”, niente male come partenza, non fosse che poi la canzone comincia sul serio e l’illusione spaziale resta tale. Segue “This hungry beast”, un delirio comprensibile, visto che dalla sesta “The wine that I drink” in poi è evidente in modo imbarazzante che qui sono proprio le idee a mancare, e a volte è fin troppo chiaro che nel vino che bevi l’oste non s’è regolato con l’acqua.

Da acchiappare per i capelli la numero dieci “Face on breast”, cover di Scott Walker (interessante l’ambientazione Bowiana e il lavoro di voci e synth), mentre “This strange disease” è un perfetto requiem per un’esperienza che lascia alquanto turbati e incerti sul da farsi… “C’mon, let’s go” è il sussurro finale, e lì per lì la risposta all’inquietante invito viene fuori da sola: “No no, thanks, see you later, ok?”.

40/100

(David Capone)

11 luglio 2011

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