LITURGY, “Aesthethica” (Thrill Jockey, 2011)

A guardarli in foto ti viene voglia di cambiargli i connotati. Nel video di “Returner”, ridicolo quanto può esserlo uno di Lenny Kravitz, vediamo anche un bassista con la faccia di uno che ha avuto apparizioni mariane e i primi piani sul presunto cruccio esistenziale di un Hunter Hunt-Hendrix coi capelli lisci e pettinati e una maglietta a v su petto glabro. HHH ha un faccino pulito che piace sia alle mamme che alle bambine ed è uno che parla di trascendenza nelle interviste tv dopo una sessione di fondotinta. Mi tira fuori un’antipatia che non provavo dai tempi dei Silverchair e la voglia di fargli io il face-painting a forza di schiaffi (tranquilli, scherzo, sono mansueto come un agnellino). Per la sua creatura è stata coniata addirittura l’etichetta idiota di indie-black-metal.

Basta analizzare l’apertura di “High Gold” (il sole?) per capire in che razza di cortocircuito ci troviamo. Un incrocio assolutamente folle e sconsiderato tra “New Day Rising”(!!!) degli Husker Du (copertina con i primi raggi dell’alba) e gli At The Gates di “The Red In The Sky Is Ours” e “With Fear I Kiss The Burning Darkness” (gente che già nei titoli metteva in chiaro che la troppa luce abbaglia e che sul proprio rapporto perverso con le lampade a incandescenza ha scritto cosucce come “Raped By The Light Of Christ”). Ovvio: HHH non ha nemmeno una briciola dell’impatto empatico di Bob Mould o di quello espressionista di Tomas Lindberg. Ma il senso liberatorio (HD) e terrificante (ATG) di questi cinque minuti di assalto squassa ed eleva quasi alla stessa maniera. Non prendo nemmeno in considerazione il black metal che ancora non si è fatto vivo, se non nello scream e nel blast beat. Le armonie sono scomposte e impetuose e vengono dalla noise-psichedelia frenetica degli Oneida e dei Parts&Labor (“Mapmaker” è stato il disco della mia celebrated summer e aveva, guarda caso, un sole in copertina). Le chitarre sono aspre, acide e limpide, convulse e agguerrite. Un altro parallelo sensato è quello con lo screamo dei La Quiete (che su Pitchfork, però, non ci vanno facilmente).

Più avanti nel disco sono due le tendenze che si fondono anche se sulla carta non dovrebbero: fedeltà (finta) al verbo black e istinto (sincero) progressivo e moderno. Il primo è il punto debole del disco. Di buio non ce n’è nemmeno un po’ (non che HHH sia abbronzato, sia mai, si rovinerebbe la carnagione), ferinità neppure, quindi il romanticismo delle armonie prese pari pari dai norvegesi con le facce pitturate sfiora la farsa (ancora più che nel black originale? Onestamente non saprei dire).

La seconda tendenza genera invece il massimo dell’esaltazione: algoritmi degni dei Battles, assalti frattali che rimandano ai Meshuggah, scarti melodici nelle chitarre di origine post-hardcore (Isis e non solo), la magniloquenza e lo spirito progressivo dei Mars Volta, la marzialità yankee di Mastodon e Baroness (solo che i Liturgy sono fighetti di Brooklyn che comunicano via Twitter e non dei redneck con le pance gonfie). In “Glass Earth” sembra di sentire gli Yeasayer (appunto). Le parti migliori spesso sono strumentali (e fossi in HHH ci rifletterei su), ma la complessità delle situazioni è tale da scoprire sempre particolari nuovi in ogni brano. “Returner”, “Generation”, “Veins Of God” e “Red Crown” sono caleidoscopi immaginifici.

La chiusura affidata ad “Harmonia” è CLAMOROSA e salva capra e cavoli sfidando sul loro campo i campioni rurali del black metal USA, i Wolves In The Throne Room, senza rinunciare a sfogare un ventaglio di soluzioni espressive emozionanti, epiche,palesemente e disperatamente indie. Perché il punto è questo. Non solo non è black, non è neppure metal. E il fatto che dei laici stiano cercando di strappare di mano le redini della musica pesante ai suoi sacerdoti metallari e reazionari è comunque una buona notizia.

Questo disco è una truffa sfrontata e contemporaneamente un lavoro devastante.

80/100

(Lorenzo Centini)

20 maggio 2011

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