Nas e Damian Marley, Concerto al Palasharp, Milano (9 aprile 2011)

Il disco nato dalla collaborazione fra Nas e Damian Marley non mi ha entusiasmato.
Colpa forse di “As we enter”, il folgorante singolo che ha anticipato l’uscita di “Distant relatives”: lì lo stile dei due si amalgama in maniera splendida e per certi versi perfino sorprendente, tanto che dopo averlo sentito mi aspettavo il capolavoro; sulla lunga distanza invece – almeno a mio modesto parere – il figlio del più famoso Bob e il rapper del Queensbridge si sono dimostrati tutt’altro che complementari.
Non che il progetto faccia schifo: Nas ha sempre il suo perché, se lasciato evoluire su una base, e attualmente Junior Gong ha pochi rivali; semplicemente il cd manca di quell’unità di fondo che era lecito aspettarsi dopo la bomba iniziale e io (che sono sempre malizioso) rimango convinto che uno abbia scritto le strofe a New York e l’altro in Jamaica, che con la Rete è più o meno come essere assieme, oppure no.

Com’è, come non è, non ci ho pensato su nemmeno due secondi a spendere i quasi 40 euro necessari per accaparrarmi un biglietto per il concerto di Milano.
I motivi, in breve:
1) Nas è uno dei miei preferiti di sempre e sono convinto che “Illmatic” sia fra i cinque dischi da tramandare ai posteri per spiegare cos’era l’hip hop, ammesso che sia morto (o moribondo) come lo stesso Nas suggerisce nella titletrack della sua penultima fatica.
2) Damian, tra tutti i discendenti della famiglia Marley, è quello che ha saputo raccogliere l’ingombrante eredità paterna nella maniera migliore, tanto da brillare di luce propria; e considerando che il fratellone Ziggy l’ha sfruttata per accoppiarsi e figliare con Lauryn Hill, si tratta – almeno a mio modesto parere – di remuntada storica.
3) C’è poco da fare, quello dei due è un progetto innovativo a prescindere dalla riuscita, perché di dischi a metà tra il rap e la dancehall ne sono usciti pochini, e questo è l’unico che coinvolga due pesi massimi dei generi. Insomma, è un esperimento interessante e coraggioso che merita un’occhiata dal vivo.
4) Amici che avevano assistito alla tappa tedesca del tour mi hanno assicurato che in realtà avrei visto tre concerti in uno: oltre ai pezzi del disco, infatti, sia Nas che Damian avrebbero eseguito alcuni dei loro pezzi più famosi da solisti.

Si raggiunge Milano sul presto, tutti carichi, perché in Lombardia sono precisi: se ti dicono che un concerto inizia alle nove comincerà effettivamente alle nove, roba che uno abituato a Bologna (tanto per dire) rischia di arrivare che se ne sono andati pure gli spazzini. Il PalaSharp è infatti già stracolmo alle otto. Io (che oltre che malizioso sono un rompicazzo) non è che abbia apprezzato molto l’opening della serata: a un certo punto salgono sul palco Esa e Tormento, fanno dieci minuti di hype, poi se ne vanno e riparte una mezz’ora di selezione a volume così basso che si fa fatica a distinguere un pezzo dall’altro; per le nove e cinque, nove e dieci il concerto è già iniziato. Così. A freddo, potremmo dire, se non fosse che l’afa è talmente opprimente che si fatica a respirare. Ma i trenta gradi di questo 9 aprile mi sembrano più un presagio dell’apocalisse imminente che un aspetto organizzativo di cui lamentarsi.

Il live si struttura in effetti come mi era stato raccontato. La prima parte insieme è introdotta inevitabilmente dal call and response di “As we enter”, perfettamente riuscita anche dal vivo, con Nas che ti spiega che ha portato la pistola e Damian che risponde che ha la ganja, e l’abbinamento è talmente perfetto da risultare naturale e inevitabile; dopo qualche brano da “Distant relatives” tocca quindi a Nas da solo, che pesca dalla faretra la solita massiccia dose di pezzi immortali (tra tutti i più coinvolgenti sono risultati “Made you look” e la versione acustica di “One mic”), per poi lasciare spazio agli estratti altrettanto pregio di Damian; i due tornano di nuovo insieme, si separano per un’altra breve parentesi in personal e si ricongiungono per il gran finale, chiudendo il bis con “Could you be loved”, che quando hai un papà del genere tanto vale sfruttarlo, no?

Ecco alcune considerazioni sparse.
1) Innanzitutto in platea ci sono un sacco di signorine e sono lì tutte e unicamente per Damian Marley. Lo si capisce già durante l’hype iniziale: alla domanda “Chi è venuto per vedere Nas?” fa seguito una risposta a forte prevalenza baritonale; per Junior Gong si leva invece uno squittio decisamente più potente ed entusiasta. Sono calcoli che avrà fatto anche Nas, mi viene da pensare lì per lì, stanco di vedere solo della braga ai suoi concerti.
2) Dell’entertaining tra un pezzo e l’altro si occupa il rapper del Queensbridge, con Damian Marley libero di ciondolare per il palco e di farsi i cazzi propri. A un certo punto Nas, nell’introdurre un pezzo che parla di schiavitù e di Africa, se ne esce con una cosa del tipo “freedom to Zimbabwe, freedom to Ethiopia, freedom to Italy”; la platea rimane sbigottita qualche secondo, poi esplode. Faccio fatica a immaginarmi il vecchio Nas che segue in streaming Travaglio e s’informa via web sugli sviluppi della politica nostrana, per cui l’accostamento tra il Bel Paese e alcune delle realtà africane più problematiche dovrebbe essere casuale, del tipo che anche a Parigi avrà detto “freedom to France”; è più indicativo il momento di silenzio da parte nostra, nel mentre che valutavamo l’esatto significato delle sue parole. Siamo ufficialmente nel terzo mondo, come ha commentato un mio compagno di concerto.
3) Non c’è tanta gente che apprezzi allo stesso modo hip hop e dancehall. Buona parte del pubblico, e sicuramente la componente femminile, come già anticipato, era lì per Damian; non dico che la reazione ai pezzi di Nas sia stata freddina, però quando partiva l’altro scattava il boato, e per “Welcome to jamrock” (giustamente) è stato delirio puro e semplice. Diciamo che, traducendo il tutto in un problemino di insiemistica, la zona di sovrapposizione fra ascoltatori di rap e di reggae è decisamente ristretta; questo ha garantito una grande affluenza al live (si è attinto da due nicchie ben distinte) ma ha un po’ limitato la resa del tutto. Resta il sospetto che sia un problema più che altro italiano, che secondo me i crucchi sono impazziti per ogni singola fase dello show.
4) Il concerto è decisamente vario, equilibrato, ben strutturato; la performance complessiva è di gran livello e – tra disco e live dello stesso – mi sembra decisamente più coeso il secondo, paradossalmente proprio grazie alle parti soliste, che gli danno vivacità e potenza, senza per questo trasformarlo in una carnevalata senza costrutto.
5) Ha un futuro questo progetto? Vale la pena di riproporlo? Domanda difficile, a cui rispondo solo perché immagino che Nasir e Damian stiano leggendo avidamente queste righe e aspettino proprio da me l’imbeccata. Secondo me sì, ragazzi: io continuerei però con la struttura alternata di “As we enter” e affiderei a Damian il grosso dei ritornelli, visto che ha la preziosa capacità di sfornare un singolo ogni due cantati che improvvisa sotto la doccia, come mi ha fatto notare un altro compagno di concerto. Io mi sono divertito e viene da sperare che la parentela diventi sempre più stretta, col tempo, che prima o poi ci arriva anche il pubblico italiano. Anche se, come ci ha fatto notare Nas, al momento avremmo altre cose a cui pensare.

(Fabio Varini)

15 aprile 2011

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