CESARE BASILE, “Sette pietre per tenere il diavolo a bada” (Urtovox, 2011)

Un  disco lasciato decantare, per goderne appieno e assaporarne i sapori e gli odori, gli umori e le dolenti inflessioni. Cesare Basile non ha bisogno di  presentazioni, ma a volte è meglio riaffermare per non rischiare che un neofita capitato per caso su queste pagine possa disdegnare musica così splendida solo perché non particolarmente incuriosito dal nome dell’artista catanese. Non c’è però bisogno di specificare che “Sette pietre per tenere il diavolo a bada” sia il settimo disco del girovago artista siciliano oramai trapiantato a Milano e nemmeno ribadire quanto la musica di Basile sia classica ma con chiare inflessioni blues che solo chi ha una visione ampia della vita può non rendere banale. Però affermare, quasi senza ombra di dubbio, che in un momento di instabilità politica questo sia il disco migliore di un artista che da anni si muove con coerenza nel sottosuolo italico musicale, potrebbe essere utile per consegnare davvero a Cesare ciò che è di Cesare. Le affinità con Fabrizio De Andrè di “Crueza De Ma” (lo sguardo del musicista è rivolto dalla terra verso la propria terra) sono ineluttabilmente chiare in quanto questo è un disco che prende ispirazione proprio dalla terra natia, dal luogo che genera la vera poesia e può, attraverso le immagini trasfigurate dai luoghi, portare alla consapevolezza delle proprie idee.

Come si sentiva l’odore del mare e si percepiva il vociare nei vicoli dei mercati genovesi, qui è chiara la banda che passa in un qualsiasi paesino siciliano per avvertire la presenza di una festa giunta al termine (“Elon lan ler”), un luogo dove NOI mangiamo ancora terra e LORO mangiano PANE (“Sette Spade”), una interminabile sofferenza culturale che miete ancora inutili vittime (“L’impiccata”) trovando però la forza di citare l’amore che si erge fra le macerie, l’instabilità, la paura e la solitudine ne “Il Sogno della Vipera” e “Questa notte l’amore a Catania”. Basile è abile nel rielaborare il blues desertico che solitamente veste i Giant Sand perché lui vive queste storie, lui è davvero reale nel raccontare una diversa prospettiva di un Italia che, attraverso metafore filtrate da un sole cocente, ha bisogno di poesia che gli indichi una via di fuga, ha bisogno della tradizione per immolarsi “E alavò” e ha necessità di trasfigurare l’immagine fasulla di chi vede il nostro paese un avvizzito lembo di terra senza teste pensanti.

Accompagnato da una nutrita schiera di adepti che hanno la stessa visione della musica (Lorenzo Corti dei Musical Buzzino, Enrico Gabrielli e Alessandro Fiori dei Mariposa, Rodrigo D’Erasmo, Roberto Dell’Era, Alessio Russo ecc…) Cesare Basile celebra un inno di rivolta che si cela fra righe di sofferta musica d’autore, accarezzata da chitarre che parlano una lingua straniera, ukulele che chiedono giustizia e percussioni che danzano incuranti dei padroni sempre uguali. Chiedere di più alla musica italiana sarebbe riesumare i morti che dormono in pace.

82/100

(Nicola Guerra)

7 aprile 2011

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