INTRONAUT, “Valley of Smoke” (Century Media, 2010)

Nella chart dei migliori album del 2010 ho posizionato in vetta “Valley of Smoke” terzo full-lenght dei californiani post-tutto Intronaut. E l’ho fatto seguendo motivi che, nell’anno appena tramontato, gramo di folgoranti proposte, mi sono sembrati più decisivi di altri.

Primo tra tutti: gli Intronaut, ultimo prodotto di ricerca avanzata nel laboratorio dello sludge progressive, entrano di diritto tra coloro che stanno partecipando alla plasmazione di un filone d’oro inesauribile, di un mainstream poderoso e quasi spaventoso per i chili di potenza e di abilità versati.
“Valley of Smoke”, che allude alla fumosa città di Los Angeles e non al consumo di marijuana, è la prova che gli Intronaut al terzo album hanno raggiunto una maturità di mezzi ed espressione che li conduce alla luce attraverso il loro condotto uterino, seguendo la strada dei migliori. Riescono infatti a mettere insieme la volontà uranica dei Mastodon e il paganesimo tellurico dei Baroness.

Questo significa che hanno superato le loro colonne d’Ercole, la fase di gestazione di uno stile dopo la quale non potranno essere più gli stessi. Una prova della consapevolezza del pericolo di sembrare epigoni in un mondo di facile standardizzazione, è che dopo averci fragorosamente titillato e tormentato, a viaggio quasi terminato inseriscono la loro formidabile intuizione: un black jazz dalle tinte noir, pistola fumante di un delitto psichico consumato nella coscienza. È la scelta un po’ aliena ma catartica e necessaria che tiene in piedi una bravura che rischia di franare da un momento all’altro nella rappresentazione muscolare del loro intelletto musicale.

I tempi dispari di “Elegy” o il basso “scricchiato” di “Above”, il doppio pedale death metal á la Lombardo di “Sunderance” o l’arpeggio hammer-on/pull-off che è senza dubbio tratto da “Schism” in “Core Relations”, ci avevano preparato per tutto il tempo all’esperimento jazzistico cupo e conturbante, degno di un Miles Davis sgalletante, della title-track, il passaggio ad ovest degli Intronaut.
L’ingresso di un pow-wow slegato e raddoppiato di “Valley of Smoke” straniano e dilatano la nostra percezione. In questa valle di fumo Joe Lester dal basso tonante, già nei Mouth of the Architect, si permette di avere come second bass guitar Justin Chancellor, assorbendo in omaggio e in tenzone, la maestà orfica dei Tool, e Danny Walker, con eleganza da maestro, padroneggia una batteria pirotecnica di immaginifica ed eccezionale coloritura. I tempi dispari tinteggiati come una fotografia metropolitana sporca e cool, moltiplicano piuttosto che sommare, in una prova rotonda, da live, simile agli inarrestabili Dysrhythmia. “Past Tense” che chiude l’opera e il cerchio, è la prova che qualcosa di importante è stato appena ascoltato: pur essendo il pezzo debole dell’album, con la già ascoltata alternanza di cantato growl, grunt e clean, ci avvolge nel finale strumentale, di nuovo etnico, una lunga coda ritmica che non vacilla e non si spende in dissolvenze leziose.
Detto ciò… c’è un altro motivo, un motivo personale, che ha avvicinato al mio cuore questi ragazzi californiani: sul blog di Sacha Dunable (guitar e vocals) campeggia ad apertura l’immagine di un giovane Leonard Nimoy che chitarra in mano ci occhieggia stupito. Che gli Intronaut stiano forse provando “…To Boldly Go Where No Man Has Gone Before”?

89/100

(Stefania Italiano)

21 febbraio 2011

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