JAMIE LIDELL, Compass (Warp, 2010)

Così a lungo e colpevolmente abbiamo taciuto di Jamie Lidell su queste pagine, che dev’essere una configurazione stellare particolarmente favorevole quella che ha fatto sì che cominciassimo a parlarne proprio in coincidenza di questo disco, ideale riassunto delle puntate precedenti. Per chi se le fosse perse, da inizio secolo ad oggi sir Lidell si è distinto quale personaggio anomalo (eppure fortemente rappresentativo) del camaleontico pop londinese, passando da stregonerie digitali e danzerecce ad una produzione di soul classico in sole quattro mosse: quattro album che lo hanno visto spogliarsi progressivamente degli orpelli elettronici per approdare ai quasi soli piano-e-voce dell’ultimo “Jim”.

Ora, se questo nuovo lavoro avesse seguito le orme del singolo d’apertura che gli dà il nome saremmo qui a scioglierci la lingua su qualche definizione sul genere “folk-psych-folk elettronico-acustico”. Fortuna che un saggio Beck, dalla cabina di regia ha arrestato tutto ad appena un passo prima, e che, almeno per ciò che riguarda gli altri brani in scaletta, il suono di “Compass” trova – passatemela – la quadratura del cerchio tra le due anime del cantante. Da rumorose basi laptop si fa strada la voce del nostro, ormai erede provetto dei vocalizzi alla Marvin Gaye: i rudimenti elettronici della giovinezza discografica tornano al servizio della nuova cotta per il belcanto in stile Motown.

Spesso, è vero, si rasenta la tamarraggine, con un beat che tira di brutto e qualche “pernacchia” di troppo. Ma non è poi un gran prezzo da scontare, se è vero che con l’amore per il soul, Lidell, da vero filologo, si è portato a casa tutto il pacchetto: l’attitudine languidomuscolare in una mano e la sua languida controparte nell’altra. E allora immaginatevelo un numero strappamutande come “Needs you” cucito sopra ad una, chessò, Joss Stone del caso: roba da farla tornare in direttissima allo splendore degli esordi. Ma in realtà sarebbe tutto questo cosiddetto filone nusoul, se si decidesse a mostrare una qualche consistenza, a dover passare dalla produzione del nostro inglese: e di quel passaggio di rinnovamento, il sound mutante di “Compass” sarebbe senz’altro tappa obbligata.

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