HOT CHIP, One Life Stand (EMI, 2010)

Se non avete mai sentito parlare di loro o ve ne siete volutamente tenuti alla larga, questa è davvero l’ultima chance. Perché, prendere o lasciare, arrivati ormai al quarto disco, gli Hot Chip hanno raggiunto la loro dimensione ideale e forse il loro apice creativo. Dai sommessi toni da ballate da bagnasciuga scritte da Prince-maniac di “Coming On Strong” perso tra elettronica e soul, alla deviazione disco-funk di “The Warning”, esemplare raccolta di tormentoni intelligenti da dancefloor, per arrivare a “Made In The Dark”, compendio delle loro sonorità che rimescola nuovamente le carte. Mentre inni quali il classico “Over & Over” o una delle ballad elettroniche più intense del decennio, “Boy From School”, continuavano, e continuano tuttora, a riecheggiare nelle piste di ogni dove. Dalle nostre parti più che altrove continuino a essere catalogati come fenomeno di nicchia-underground-alternativo-indie-chiamatelocomevipare. Un peccato viste le enormi potenzialità commerciali dei due simpatici musicisti londinesi con l’aspetto da sfigati qualunque e l’inesorabile umorismo british in consolle.
Il brano d’apertura “Thieves In The Night” così come il singolo di lancio “One Life Stand” sembrano invitare educatamente i Depeche Mode a farsi da parte. Come a dire che i padrini del synth-pop vorrebbero scrivere canzoni del genere, ma ne hanno già scritte abbastanza e forse i tempi sono cambiati. Ritmica incalzante, sintetizzatori anti-depressivi, la voce al top.

Sì, perché Alexis Taylor, vocalist principale, senza il fascino da uomo vissuto di Dave Gahan né il fascino da disadattato di Gore, è un eroe più mediocre e anonimo. Darà pure l’idea dello stralunato nerd occhialuto con cui non vi sareste mai fatti vedere in giro al liceo, ma il suo timbro agrodolce e allo stesso tempo ingenuo e svampito, è la peculiarità e forse il segreto degli Hot Chip. Laddove infatti la deriva tamarra è dietro l’angolo, con sonorità esuberanti e multicolor da raccolta del peggio degli anni ’80 o se preferite dei ’90, la cura compositiva degli Hot Chip risolve ogni problema. Si ascolti “Hand Me Down Your Love” e “I Feel Better”, scritta dopo aver assistito a un’esibizione in tv di un’altra icona anti-glamour inglese quale l’inimitabile Susan Boyle e che ricorda non poco “La Isla Bonita” di Madonna.

Vengono in mente club kitsch, flanella, casse dritte, abbinamenti di colori inguardabili, acconciature e frangettone improbabili, bomber, scarpe bianche da ginnastica e occhiali da sole da querela. Eppure loro riescono a rendere la formula a suo modo elegante e mai pacchiana. Le chitarre e le basi sono sempre al posto giusto, i brani, secchi e immediati, non si dilungano come in passato né risultano mai forzati o eccessivamente derivativi nei loro rimandi. Nei brani dei due impiegati del sintetizzatore c’è aria di Pet Shop Boys, di Simple Minds, l’anima nera del soul e del funky non è assolutamente messa in soffitta, ma gli Hot Chip suonano ormai come Hot Chip. E poco altro. Non solo nei momenti più nervosi, ma nelle stesse ballate, sempre molto Eighties da desolanti panorami fantasy (“Slush”e “Keep Quiet”), e soprattutto “Brothers” che suona già come un classico per come riesce a entrare in testa dopo mezzo ascolto. Epica e minimale allo stesso tempo, come i già citati Depeche Mode nel perfetto intreccio tra le voci di Alexis e Joe Goddard, altro titolare del progetto e principale compositore e strumentista. I due sfigati della City in questione sanno scrivere delle canzoni. Tutto qua.

“Ready For The Floor” era il motto del precedente album. Motto in parte ancora valido in questo “One Life Stand” che li consacra definitivamente come icone clerk dell’electro-pop o se preferite come white collar della nuova scena dance londinese.
Il disco ideale, in definitiva, per uscire dall’inverno. Che sia poi da intendersi come inverno della vostra vita o come inverno del 2010, affari vostri.

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