BAD APPLE SONS, Bad Apple Sons (A Buzz Supreme, 2010)

Vincere il Rock Contest ha portato fortuna a molti, in primis agli Offlaga e a Samuelino Katarro. In realtà non si tratta nemmeno di fortuna, chi arriva ad essere la massima segnalazione in un concorso così articolato e curato ha dei numeri per forza. Come questi Bad Apple Sons, che ce li ricordiamo molto bene primeggiare all’edizione del 2008 per la loro verve comunicativa seppure acerba.

E le luci ed ombre che ci era parso di scorgere continuano a riverberarsi anche in questa loro prima opera omonima: quando i Bad Apple Sons fanno (troppo) i Bad Seeds allora il gioco si interrompe e ci si diverte (o meglio, si capisce) poco (“The Claim”, “Take This Moral Tea”), mentre se cercano di tratteggiare delle canzoni vere e proprie (“Back Room Facials”) la penna compositiva fa dimenticare le reminescenze.

Certo è che qui in questa nazioncina dimenticata dal rock avremmo bisogno di gruppi che il rock se lo rivoltano come un calzino piegandolo alla propria attitudine, non di band che guardano acriticamente a strutture e logiche anglofone. Non dev’essere tutto sulle spalle dei Bad Apple Sons, ok, ma da una band così “in vista” il cui disco d’esordio è atteso, beh, si hanno maggiori aspettative.

A nostro sommesso parere i Bad Apple Sons si manifestano veri e, soprattutto, necessari in brani come “Whales Are Watching” e “I’m The Cutter” in cui attutiscono l’attitudine rumorista e pigiano il tasto di una psichedelia spoglia, malata, opprimente, senza bisogno di buttare “tutto in vacca” (come in “Namby Pamby”) perché mantengono una tensione vigile.

Nema problema, dal giudizio complessivo sul primo album dei Bad Apple Sons discende un’unica considerazione: che ci sono margini (decisi) di miglioramento. Con umiltà i fiorentini li potranno di certo individuare.

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