THE FLAMING LIPS, The Dark Side Of The Moon (Warner Bros, 2010)

“Finally the punk rockers are taking acid” titolava una triplice raccolta riassuntiva del primo periodo Lips. Ed era proprio così. L’esordio della band di Wayne Coyne nella seconda metà degli anni ’80 segnava un incontro, sulla carta assai improbabile, fra la verve incendiaria del punk-rock e le visioni lisergiche del pop psichedelico. Diverse le miglia percorse finora, ma le ispirazioni che animano la band sulla lunga distanza restano poi sostanzialmente sempre quelle.
Sulla scorta dell’entusiasmo dalla loro ultima provocazione (un disco di suoni e atmosfere amniotiche, “Embryonic”, che ha bruscamente interrotto la serie di dischi “pop” inaugurata con gli anni zero) i nostri scelgono ora di indirizzare le proprie pulsioni distruttive contro un moloch intoccabile della storia della musica rock. “The Dark Side of the Moon” non è soltanto un capitolo d’importanza fondamentale per gli anni ’70: il gigantismo della macchina produttiva, la stagione aurea che gli ha dato i natali, il culto per il “suono”, per la ricercatezza delle trame strumentali e per l’oggetto dell’Lp in se stesso hanno contribuito a farne, in qualche modo, il disco rock per antonomasia, a prescindere da obiezioni e preferenze stilistiche di ciascuno. Omaggiarlo o citarlo è pratica comunemente accettata: ma metterci le mani sopra per “rifarlo” da capo a piedi è un’operazione che rievoca paragoni impertinenti e che, per il floydiano doc, puzza di eresia già in partenza.

Non è ben chiaro se i Flaming Lips affrontino l’impresa più come adepti terminali del culto Pink Floyd o come guerriglieri intenti a fare giustizia di uno degli ultimi colossi del rock classico ancora in piedi. Sta di fatto che il sentore che si prova ascoltando “The Great Gig in the Sky” tramutarsi in un discofunk elettrificato o la celeberrima “Money” passare al torchio del vocoder di Coyne, sta a metà strada fra una provocazione deliberata e l’omaggio troppo devoto, fra l’attualizzazione di un passato mitico e un pellegrinaggio (anzi, un “trip”…) sulle orme di Gilmour e Waters.

L’ascolto del loro “Dark side” ricorda da vicino l’ “Eight Miles High” centrifugata dagli Husker Du che poi, candidi, dichiaravano che a loro pareva di suonarla “proprio come quella dei Byrds”. (E ce ne andava, di fegato, per trattare quella scheggia di hardcore impazzito come una copia carbone del jingle jangle originale…)
Conoscendo i soggetti, non è da escludere che prima o poi anche i Flaming Lips se ne vengano fuori con una dichiarazione del genere, ed è anche probabile che nel farla sarebbero in totale buona fede. La ricetta per sottrarre la musica di “The Dark Side of the Moon” al suo terribile destino da cimelio museale è forse proprio questa: farlo rivivere per quello che ha rappresentato, non tanto per la storia, quanto per le orecchie di ognuno dei suoi ascoltatori. Ed è possibile che nella testa dei componenti dei Flaming Lips il disco abbia sempre risuonato in questo modo, con i tossicchi di Henry Rollins e i biascichii di Peaches sparsi qua e là.

PS. Da qualche tempo il cover-record girava esclusivamente in versione digitale, quasi a voler dare la botta definitiva ad ogni eventualità commemorativa o celebrativa e gettare definitivamente il progetto nel contesto “home made” della musica in rete. Oggi invece la notizia di una prossima pubblicazione, su un’edizione limitata in vinile a metà aprile e su cd ad inizio maggio: i feticisti della musica-oggetto possono tirare un sospiro di sollievo. Almeno per ora.

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