30 anni di “99.9 F°”, il disco industrial-folk di Suzanne Vega

La libertà dei primi Nineties

“Mi ha reso molto felice che il disco dei Nirvana (“Nevermind”, nda) abbia venduto più di Michael Jackson; all’improvviso la gente non sa più cosa serve per avere successo. Questo apre la possibilità che la musica venga fuori dal nulla, e questo mi dà speranza”: così dichiarava a Recording Musician nel marzo del 1993 Mitchell Froom, il produttore nonché tastierista in “99.9 F°”, quarto album di Suzanne Vega che oggi compie 30 anni essendo uscito l’8 settembre 1992. Così andava, all’epoca. Il 1991 aveva aperto non una porta ma mille portoni per chi volesse fare musica in un modo meno convenzionale, e lo aveva fatto perché questo metodo funzionava e i dischi registrati così vendevano. E per questa via i musicisti, e soprattutto i produttori, si sentivano liberi di fare quello che realmente volevano. Ciò fu anche per quel meraviglioso album che è “99.9 F°”

Quando il folk di Suzanne Vega incontrò la house

Suzanne Vega proveniva da tre album di successo, ma che erano più o meno statici da un punto di vista del suono, quel classico folk rock acustico che aveva aperto la strada al cantautorato femminile della metà degli anni ’80, in particolare a Tracy Chapman e Tanita Tikaram. “Suzanne Vega” e “Solitude Standing”, i suoi primi due album sono infatti del 1985 e 1987, mentre i debutti delle altre due folk-singers citate sono del 1988. Il terzo “Days Of Open Hand” (1990) possedeva poi bellissime canzoni, ma da un punto di vista dell’evoluzione artistica era un’occasione persa perché Suzanne non aveva inserito dei cambiamenti sonori. Ma poi accadde un fatto strano: nel 1990 due ragazzini inglesi (i D.N.A.) fecero un remix di “Tom’s Diner” nella loro cameretta, così come poteva essere realizzato allora con il boom della house che – appunto – si poteva fare in casa con un Amiga 1000 e Cubase. Il remix, per il quale fu utilizzato un campionamento ritmico dei Soul II Soul (“Keep On Movin'”), fu un successo internazionale e, nonostante i poco più che adolescenti della città di Bath non avessero chiesto l’autorizzazione alla A&M Records, tutto finì bene con relativo accordo tra i contendenti (di questa storiella nel ho parlato più diffusamente nel mio libro “1991 Il Risveglio del Rock“, a cui rimando). La Vega capì che la sua musica poteva essere arrangiata diversamente, per cui – nel momento della scelta del produttore per il suo quarto disco – la casa discografica chiese a tre produttori e Suzanne rimase colpita dall’approccio di Froom: “Uno dei produttori mi disse che avrei dovuto fare qualcosa di completamente diverso e magari fare un disco rap o qualcosa del genere, un altro pensava che il nastro fosse ottimo così com’era, e Mitchell mi disse che gli piacevano le canzoni, ma non gli piaceva la produzione. Pensava di poter fare di meglio. Era quello che volevo sentire, perché ero curiosa di lavorare con qualcuno che potesse insegnarmi alcune cose. Mitchell pensava che la musica avrebbe dovuto avere molta più vitalità e suonare più insolita. Mi disse che il mio approccio era troppo ordinario e che era un errore usare una normale batteria da rock ‘n’ roll”. E così fu.

Mitchell Froom, un produttore sulla cresta dell’onda

Mitchell Froom rivoluzionò il suono di Suzanne introducendo elementi rumoristici quasi industriali, una base percussiva costruita con campionamenti, bassi presenti e corposi e un suono che in definitiva è un’architettura strutturata, come quegli edifici degli inizi del ‘900 che vengono ristrutturati con innesti di vetrate e legno. Froom al tempo era l’uomo che aveva prodotto i primi tre album dei Crowded House, oltre a quella meraviglia che è “Mighty Like a Rose” di Elvis Costello, oltre che a qualcosa dei Pretenders, e suonava le tastiere nella maggior parte degli album che produceva oltre ad aver suonato dal vivo con Costello, Tom Waits e Crowded House. Ma soprattutto era l’uomo che aveva risollevato le sorti dei Los Lobos producendo il loro “Kiko” (1992): la band di Los Angeles era infatti reduce da alcuni album poco brillanti e si era rifatta un look sonoro con “Kiko”, inserito poi dalla rivista O tra i 50 migliori dischi del 1992. Insomma, era un produttore giovane sulla cresta dell’onda, con tante idee in testa.

Una band da urlo

Che mette insieme per “99.9 F°” una squadra da urlo: chiama il suo amico di vecchia data Tchad Blake, chitarrista ma anche produttore, il chitarrista dei Los Lobos David Hidalgo, il bassista di Elvis Costello Bruce Thomas e il batterista di Peter Gabriel Jerry Marotta. Che roba di band, incredibile. Ciascuno di questi musicisti è fondamentale per il preciso equilibrio di tutte le componenti di “99°9 F”, in particolare il lavoro più grosso lo compiono il basso di Thomas, che è la guida di tutti i brani e il cui sound fretless e rotondo riesce a smussare gli spigoli che introducono i campionamenti di Froom, e gli elementi percussivi opera del lavoro combinato di Marotta, Froom e Blake: “Tutte le tracce di percussioni sono una combinazione di Mitchell e Jerry che impazziscono. A volte c’erano elementi campionati e sequenziati, ma la maggior parte era suonata dal vivo”, ha dichiarato Suzanne Vega. “Ogni giorno mettevamo insieme un kit di batteria e percussioni diverso per ogni canzone. Jerry suonava un assortimento molto particolare di cose in posizioni bizzarre. Era davvero divertente. Alcune cose erano molto semplici, come lui che si schiaffeggiava la gamba con la mano e Tchad che la raccoglieva e la distorceva. Il giorno più sciocco è stato quello in cui hanno messo un sacchetto di plastica sopra il microfono e hanno provato a colpirlo con una delle bacchette per vedere come avrebbe suonato. Il suono era terribile. Un altro momento strano è stato quando l’intera band ha suonato il rullante. Anche quello aveva un suono terribile, quindi lo abbiamo cancellato”. È interessante questa tecnica perché denota che l’album è il risultato di una sottrazione, di prove registrate e cancellate con un vero obiettivo di sperimentazione. Froom inoltre non usò le tastiere che venivano prodotte al tempo, e che secondo lui suonavano tutte “come variazioni dello stesso chip difettoso”, bensì delle sue tastiere “vintage”, come un Chamberlain, un Mellotron, diversi organi Hammond, un piano elettrico Wurlitzer degli anni ’50, un Optigon, un Clavinet e così via, il che ha conferito all’album un suono meno databile. Paradigmatico è il caso del Wurlitzer che al tempo era totalmente fuori moda, poi tornato in auge solo nel decennio successivo per l’utilizzo che ne farà Thom Yorke in “Kid A”.

Canzoni fatte di carne e nervi

“99.9 F°” possiede una sua fisicità, un suo corpo: non a caso spesso ci si imbatte nella parola blood contenuta nel titolo di due brani, la tumultuosa e più industriale del lotto “Blood Make Noise”, che parla dei suoni all’interno della testa di una persona, e “Blood Sings”, una delle uniche due canzoni (l’altra è “Song of Sand”) arrangiate più in versione “old-Vega” solo con la chitarra acustica e un altro elemento fondante (il piano nel primo brano e gli archi nella canzone che conclude l’album). È un sangue che pulsa e che crea un tutto formato da “carne e nervi”, come avrebbe detto Ferretti, ed è interessante notare che la direzione di sperimentazione post-industriale dal volto umano di “99°9 F” è per certi versi comune proprio a quella di “Kodemondo” (1993) dei C.S.I. Mentre i clangori dell’iniziale “Rock in this pocket (Song of David)” creano l’incipit necessario per aprirsi ad un viaggio di ascolto ruvido e senza sconti, un po’ inquietante anche se con qualche apertura (l’allegra “When heroes go down”, quasi una “Shiny Happy People” un anno dopo) e lo strano dualismo “rumorismo e dolcezza” della title-track “99.9 F°” definisce in sostanza la cifra stilistica definitiva dell’album, è lo stupore nostalgico di quella meraviglia che è “In Liverpool” che eleva il disco tra i migliori – a mio parere – di tutti gli anni Novanta: con un testo che sembra un quadro, Suzanne Vega ricorda un episodio legato al suo primo amore già cantato in “Gypsy”, un ragazzo inglese che conobbe in America in un campo estivo. Lei andò a trovarlo a Liverpool e la canzone tratteggia i momenti prima di incontrarlo, quelle ore sospese in cui ci si chiede se l’altro che non si vede da tempo si è innamorato di qualcuno (“If you lie on the ground In somebody’s arms”) e in cui ci si riesce a concentrarsi, per distrarsi, solo sulle campane che suonano: il campanaro che suona all’impazzata sembra che senta la mancanza di “qualcuno o qualcosa”, il che era proprio il sentimento della Vega in quel momento.

Except for the boy in the belfry
He’s crazy, he’s throwing himself
Down from the top of the tower

Like a hunchback in heaven
He’s ringing the bells in the church
For the last half an hour
He sounds like he’s missing something
Or someone that he knows he can’t
Have now and if he isn’t
I certainly am

Una storia di famiglia

Che poi da “99.9 F°” nasce davvero una storia d’amore, quella tra la Vega e Froom. Molto intensa e concreta, visto che nel 1994 viene alla luce la loro figlia Ruby. Insomma, quella collaborazione proficua era stata fin da subito esplosiva, sia musicalmente che personalmente, e non importa che poi i due si sono separati nel 1998 perché comunque sono rimasti in buoni rapporti quantomeno dopo il secondo matrimonio di lei, avvenuto nel 2006, dopodiché Froom è tornato a fare il session-man con Suzanne Vega in tour. Quell’album dunque si incastrava in un periodo di svolta di vita personale per la Vega, anche di diverso tipo visto che al Los Angeles Times dichiarava: “All’improvviso ho sentito questa grande esplosione di energia circa un anno e mezzo fa. Si attraversano certi cambiamenti nella propria vita e tutto viene stravolto e si inizia a chiedersi per cosa si è sulla Terra, e forse questo ti aiuta a mettere le cose in prospettiva, e credo di aver attraversato qualcosa del genere qualche tempo fa. Ma non voglio essere più specifica di così”. La cantautrice aveva infatti messo a posto un po’ di cose del suo passato, lei che, cresciuta in una famiglia europea/portoricana a East Harlem e in altri quartieri di Manhattan, a 9 anni le fu detto che l’uomo che conosceva come suo padre era in realtà il suo patrigno e che in realtà lei non era per metà portoricana. Qualche anno prima di “99.9 F°”” la Vega aveva rintracciato il suo padre naturale, e scoperto che sua nonna faceva la batterista di un gruppo femminile nel circuito del vaudeville. “È una sensazione particolare quella di aver scelto uno stile di vita pensando di essere originale e spontanea, e improvvisamente rendersi conto che tua nonna ha fatto la stessa cosa 50 anni fa. Senti il tuo sangue che ti parla. Il tuo sangue che canta”.

Insomma, “99°9 F” è proprio una questione di sangue.

(Paolo Bardelli)