YO LA TENGO, Popular Songs (Matador, 2009)

La regolarità con cui gli Yo La Tengo si presentano agli appuntamenti discografici potrebbe insinuare il dubbio che, dopo quasi un quarto di secolo di carriera, fare album sia diventato per loro una semplice routine; così come il loro status di eterna band di culto potrebbe relegare le notizie che li riguardano alla parrocchia dei fedeli, che li adorano all’interno della loro nicchia indie mentre il resto del mondo può continuare a non curarsi di loro. Invece c’è qualcosa di prodigioso in un lavoro come questo ultimo “Popular Songs”, qualcosa di cui bisognerebbe esultare: freschezza, leggerezza, misura, incanto. Tanto mestiere, sì, quello di gente che ha passato la vita a mangiare e respirare musica, c’è la passione di amanti e la dedizione di artigiani esperti.

Questa volta i tre di Hoboken non tentano di replicare l’eclettismo vertiginoso dei loro ultimi anni ’90, come era accaduto nel precedente “I’m Not Afraid of You…”, ma si concentrano piuttosto sulle canzoni, rimescolando ingredienti più o meno vintage. La vena più morbida e citazionista degli Yo La Tengo, quella che risale a “Fakebook”, trova qui alcune delle sue più incantevoli attuazioni. Spesso sono il piano elettrico e l’organo a fare da spina dorsale, anche se le chitarre trovano spazio negli episodi più gioiosamente fracassoni. Inserti di archi fra Phil Spector e la disco music fanno capolino rendendo il gioco ancora più divertente.

Così, se l’iniziale “Here to Fall” mescola un wha wha dal sapore psichedelico con atmosfere da poliziesco anni ’70, la successiva “Avalon or Someone Very Similiar” introduce alle delizie più marcatamente pop dell’album, in cui le voci Georgia Hubley e Ira Kaplan duettano con grazia disarmante: in “If It’s True” sembra di sentire la gomma da masticare che si appiccica alle orecchie, ma non è per niente sgradevole. Anche James McNew risente del clima solare e rilassato e smussa il suo tono acuto in un sussurro da crooner consumato in “I’m On My Way”. Il bello è che più gli Yo La Tengo sembrano svagati più sono autorevoli, tanta è la naturalezza con cui padroneggiano i loro mezzi.

Non è però tutto sole e bubble gum: “By Two’s” ha la qualità eterea e ipnotica dei brani di “And Then Nothing Turned Itself Inside Out”, “More Stars Than There Are In The Sky” è una lenta cavalcata shoegaze su due accordi, arabescati di arpeggi e feedback. Del resto, quasi fosse un obbligo contrattuale, non c’è album degli Yo La Tengo senza divagazioni strumentali che superino i dieci minuti. Qui ce ne sono due, messi in coda come quiete e tempesta: “The Fireside”, acustica ed evanescente, e “And The Glitter Is Gone”, immancabile sfuriata chitarristica di Kaplan che supera il quarto d’ora. D’accordo, abbiamo già sentito qualcosa del genere, ma anche il giorno di Natale deve avere la sua tombola (e infatti in tanti ci si divertono).

Arrivati alla terza decade di attività, gli Yo La Tengo danno l’impressione di divertirsi ancora un mondo a fare musica. Noi, beh, speriamo che ci tengano compagnia ancora per tanto, tanto tempo.

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