MUSE, The Resistance (Warner Bros., 2009)

Che gusto c’è nel recensire i Muse? Tutti sanno come suonano, cosa suonano, conoscono i pregi e gli eccessi (ovvero i difetti), e parrebbe inutile avventurarsi nell’analisi di questo “The Resistance”. Però si deve fare, e si fa. Soprattutto per dire, per prima cosa, che gli sfondoni di “Black Holes And Revelations” sono superati, il trio inglese continua nel suonare tutto e il contrario di tutto ma l’ispirazione non sembra li abbia abbandonati. Non sono in fase discendente, ecco tutto: stanno confermando la loro formula travalicante piena di riferimenti e tecnicismi al limite dell’esibizionismo che può dare i nervi ma che fa anche molti proseliti, ormai non stiamo neanche a spiegare su chi perché chi è fan dei Muse sa già di esserlo.

Certo, quando le prime note di “Sunburn” entrarono nelle nostre casse nel ’99 si poteva scommettere su una diversa evoluzione, il genere dei Muse era lontano anni luce da quello che sono oggi. O meglio, a riascoltare quelle note adesso forse ci sono più indizi di quanti si notarono al tempo, però allora eravamo distratti dalle somiglianze radioheadiane per valutare la preponderanza degli aspetti mastodonticamente classicheggianti che, alla fine, hanno prevalso.

Già a metà strada, quando uscì “Absolution” qualcuno iniziò – forse più scherzando che dicendo sul serio – che erano i “nuovi Queen”, ed è andata che i Muse di “The Resistance” ci credono realmente di essere i continuatori ideali del discorso di Freddy Mercury e soci. In “United States of Eurasia (+Collateral Damage)” ci sono diversi passaggi che sono dei veri e propri omaggi, perché se non sono citazioni allora sono plagi. Ma il discorso si fa più complesso perché Bellamy, Wolstenholme e Howard sono complessi, passano tranquillamente dall’intro di “Unnatural Selection” con tanto di organo da chiesa stile “Simbolum 77” al successivo riff che fa spavento dal tanto è noncurantemente distruttivo, stile quelli insuperati dei pezzi di “Origin Of Symmetry”: è evidente, i Muse godono un po’ a pavoneggiarsi (e se lo possono permettere, dato il livello tecnico) e ad approcciarsi alla forma canzone con mentalità progressiva, perciò è naturale (suona naturale) il loro ballonzolare tra il pop smaccato alla Justin Timberlake di “Undisclosed Desires” e il barocchismo oscuro di “”I Belong to You (+Mon Cœur S’ouvre à Ta Voix)” (che è esattamente quello che dovrebbe suonare la Antolini se non si facesse distrarre dalla propria preparazione tecnica), saltellando fra l’epicità synth-pop alla Ultravox di “Guiding Light” (che nel ritornello ricorda “Can’t Help Falling in Love”) e le tre sinfonie finali intitolate “Exogenesis” che sono un album nell’album, un tentativo (con orchestra) di riannodarsi direttamente con la musica romantica colta.

Lasciamo i Muse dove sono, a divertirsi a prendere per il culo la Ventura e ad incidere sul lago di Como (in Italia, nazione della lirica), a cercare il ritornello catchy e contemporaneamente una velocissima scala cromatica dalle sfumature barocche alla Rainbow, cioè lasciamo che i Muse ci sollazzino inaspettatamente dalla radio quando la si ascolta distrattamente, che appena prima c’è Beyoncé e un attimo dopo “Uprising”: non era quello che avremmo voluto nel ’99, e soprattutto quando ballavamo sudaticci “Plug In Baby” nel 2001, ma vuol dire comunque ricevere qualcosa. Di tanto in tanto poi ritireremo fuori questo “The Resistance”, lo ascolteremo un po’, e poi ritorneremo a pensare che sì, sono bravi, ma che i Muse ci entravano più dentro quando erano malinconici ed incazzosi.

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