ALICE IN CHAINS, Jar Of Flies (Columbia, 1994)

Era quando il movimento delle camicione di flanella stava cercando inutilmente di riprendere il respiro, che non ce la faceva più a correre così in fretta. A bruciare così in fretta. Il mondo si era capovolto, lo showbiz stava portando sul Golgota a morire ragazzi così vitali e fragili come Kurt Cobain, da lì a poco, e Layne Staley (più in là, ma per tutti noi Layne è morto molto prima…), buttandoli sotto i più accesi riflettori, in prima serata, e poi caricandoli di responsabilità che non volevano. Vendere, stupire, andare oltre. Si galleggiava sopra una crisi economica tremenda (chi se la ricorda, la crisi del ’93?) e la Generazione X vedeva nero come l’attuale Generazione Precaria. Erano giorni un po’ così.

A Gennaio ’94, il 25 per l’esattezza, usciva “Jar Of Flies”, un ep degli Alice In Chains che forse doveva essere solo una piccola testimonianza ma che si rivelò subito, e oggi lo è ancora di più, la rappresentazione più vera del lato nascosto del grunge. Quello acustico, perché il grunge si stava trasformando, inesorabilmente, in un folk-movement. Lo dimostrarono poi i Pearl Jam con “Vitalogy” e i Nirvana involontariamente (ma siamo poi sicuri?) con il postumo “MTV Unplugged in New York”.

Sfrigolii, archi, wah-wah, accordature aperte, “Jar Of Flies” è – forse – il più bell’ep che sia mai stato composto. Per perfezione stilistica: in quei 30 minuti e 54 non si poteva dire una parola in più, suonare un’ulteriore corda, aggiungere un coro che fosse, ma non si poteva nemmeno rinunciare ad un secondo di quell’affresco così cupo e caloroso allo stesso tempo. Come se, sull’abisso della solitudine personale, degli amici avessero cantato la bellezza dell’amicizia stessa: non c’era poi molto altro in cui credere, ma quello bastava.

“L’innocenza è finita”, ci dice per prima cosa Staley in “Rotten Apple”, e non avevamo dubbi. “Ciò che vedo è irreale / ho scritto la mia parte / mangiato un pezzo della mela, così giovane / e ora sto strisciando indietro all’inizio”: il wah-wah si contorce e sembra di vederlo, Layne, che si attorciglia anch’egli in preda alle crisi d’astinenza, contrappasso del suo peccato originale. “Nutshell” calma invece le acque, e fuori dalla fase acuta arriva una reazione (“E ancora combatto”): le chitarre si fanno placide, talmente sincere che a volte suonano accordi non in maniera cristallina, e così facendo si incamminano per quella strada della confidenza che raggiungeranno – in maniera ineguagliabile – in “Don’t Follow”. “Yeah, hey, voglio andare al Sud, quest’anno”: con questa affermazione decisa di vita si apre invece “I Stay Away”, canzone dove i violini e il violoncello si ritagliano un gran bello spazio, addolcendo almeno un poco quelle “lacrime che inzuppano un cuore insensibile”.

E’ ora quindi del singolone, eh sì, messo lì a metà dell’ep come una vetta a metà del cammino, che poi c’è da tornare giù dalla cima: “No Excuses” si sentiva ovunque, venne inserita in heavy rotation su MTV e raggiunse la n. 1 della classifica “Mainstream Rock” di Billboard. La canzone, opera di Cantrell sia nella musica che nel testo (le liriche dei primi tre brani, e della conclusiva “Swing On This”, sono invece opera di Stanley), è una ballata macabra, con la batteria che lavora splendidamente sui piatti e la strofa fissa su un solo, monocorde accordo. Le voci di Cantrell e Stanley si rincorrono e si incrociano, ma è il cantato di Cantrell a tirare le fila; verso la fine fa capolino anche una strofa che pare una dedica all’amico in difficoltà (“Sei mio amico / ti difenderò / E se cambieremo / beh, ti amerò lo stesso”).

E’ talmente alta la tensione accumulata fino a questo punto, che gli Alice in Chains la sciolgono: la strumentale “Whale & Wasp” è uno di quei brani in bilico tra il buio e la luce, tra la penombra dei passaggi semitonali delle strofe e l’apertura inaspettata successiva, dove si schiude una melodia che parrebbe uscita da “Passion & Warfare” di Steve Vai.

“Don’t Follow”, ecco, è poi la più completa incarnazione di quello che è “Jar Of Flies”: un misto di leggerezza, rassegnazione, menefreghismo, un calice alzato all’ascesa e alla caduta che sono proprie della vita. Prima l’affermazione stentorea di voler andarsene da casa, di voler “girovagare per la propria strada”, poi l’abbandono alla “vita a tutto gas” e il conseguente perdersi: perdere se stesso, la propria donna e gli amici. L’epilogo può essere solo quello di “vedere la propria faccia diventare vecchia”, con la morte all’orizzonte. E’ ora di tornare a casa, e l’invocazione diventa grido ripetuto: “Take me home!”.

“Jar Of Flies” si chiude infine con un cambio leggero di registro musicale: un ritmo e un giro di basso leggermente jazzati colorano il quadretto conclusivo, il cui senso potrebbe essere rappresentato dalla frase: “Lascia che io sia così, sono ok”. Sì lo sappiamo che eri così, Layne, e ci piacevi.

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