Paolo Benvegnù, Circolo degli Artisti (Roma) (17 gennaio 2009)

Una volta terminato il concerto di Paolo Benvegnù lo scorso diciassette Gennaio al Circolo Degli Artisti, la sensazione che si aggirava per le stanze di un cervello ancora risuonante ed emozionato era chiara e distinta: i poeti esistono ancora. Mario Luzi è morto quasi quattro anni fa, Andrea Zanzotto non pubblica più libri da tempo, Alda Merini è sempre più defilata, ma per nostra somma fortuna c’è ancora in circolazione qualche scheggia impazzita come il Benvegnù ad aggirarsi tra le penombre spesse della provincia, scolpendo pagine bellissime di poesia istantanea nelle orecchie di chi ha ancora la pazienza (e il coraggio) di fermarsi un secondo ad ascoltare.
Il pubblico era quello delle grandi occasioni, numeroso e con negli occhi il brillìo preciso della luce di “chi sa” e quindi non dimentica. Massiccia la presenza femminile, donne belle ed elettriche, un’assenza affollata di donne che non ci conoscono e non ci amano, che non conosciamo e che non abbiamo amato, quasi a ricordarci la nostra solitudine di scapoli per tirannia di un destino prepotente e avverso.
Il concerto viene aperto dai Vandemars, giovane band toscana, in bilico tra Yeah Yeah Yeahs, Skunk Anansie e primi Blondie, con carismatica cantante che spacca il culo al diavolo (sia in termini canori che estetici) ed un suono bello pieno e ringhiante, molto teso, performato con sufficiente rabbia e senso della precisione. Forse diventeranno qualcuno o almeno questo è l’auspicio.

Poi è la volta “dei” Paolo Benvegnù, tutti incravattati e incastrati nelle loro giacche da crociera ben stirate, come una scapigliata orchestrina giunta al matrimonio sbagliato o come uno svagato gruppo sanremese da medio piazzamento tra il 1962 e il 1966. L’inizio della cerimonia è scismaticamente affidato a “Rosemary Plexiglas”, dall’omonimo album del 1997. Benvegnù, con il suo ciuffo wave incanutito che gli spezza il viso come un’ombra obliqua, sbraita, si contorce e frusta i musicisti tesi alla stregua di una testuggine spianata all’attacco sonico. Il repertorio degli Scisma riaffiorerà in più punti del concerto (una palpitante “Simmetrie” e altri pezzi, anche nel bis infarcito di cover smozzicate da Giuliano Palma ai Dandy Warhols) ma sono soprattutto i magnifici brani dei due album solisti a delimitare lo spazio emotivo dell’esibizione. Da “Suggestionabili” a “Quando Passa Lei” per approdare alle nuove “La Schiena”, “La Distanza” e “Amore Santo E Blasfemo”, le distanze si frantumano, le esistenze si superano e ci si riconosce in una ciurma compatta e sognate di spettatori che viaggia attraverso una romanzo di volti, voci, odori, errori, possibilità aggrovigliate l’una nell’altra, come camminando lungo i bordi del tempo senza chiedersi perchè.
Dalla folla viene risputato a gran voce qualche “Solo tu sei Paolo Benvegnù” o addirittura, con nostro sommo sgomento, “Consumami!”, a riprova di un amore sincero e profondissimo. Il gruppo, con in evidenza l’incontenibile bassista “Roccia” Baldini, il metronomico batterista Andrea Franchi e il versatile polistrumentista Guglielmo Ridolfo Gagliano (tastiere, violoncello e chitarra), innalza ripide mura di suono e scolpisce cornici strumentali solidissime per il paesaggismo lirico e sfuggente di Benvegnù e l’impressione è quella di trovarsi di fronte alle idee di un artista che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto mandare a lavorare in qualche friggitoria malfamata la marmaglia di impostori canterini che quotidianamente infestano i palinsesti radiofonici dello stivale, atterrendo i nostri pomeriggi senza luce. Ma in fondo, da una certa prospettiva, è anche giusto che sia così, il valore salvifico della poesia è nella sua rarità.

Il concerto finisce così, lasciando tra le pieghe del pensiero qualcosa di impreciso e di prezioso, una patina leggera di nostalgia cantabile, il ricordo che già si appanna di una donna che non si è incontrata e che, per tutta la durata del concerto, ci è quasi sembrata respirare e sorridere alle nostre spalle. Un’impressione, un piccolo cerchio increspato nell’acqua.

Un ringraziamento a Federico e allo “Steppa” (ovvero Stefano).