GUILTY SIMPSON, Ode To The Ghetto (Stones Throw Records, 2008)

Le raccomandazioni fanno comodo. Quando di professione fai l’MC e il tuo pigmalione è uno dei produttori più importanti dell’ultimo decennio, uno di quei pochi che sono ancora in grado di innovare un genere dai vincoli abbastanza restrittivi come l’hip hop, diciamo che sei quasi a cavallo. Se poi il tuo mestiere lo sai fare eccome, il rischio di esordire con un gioiellino come questo “Ode to the Ghetto” inizia ad assumere contorni precisi, anche se nel frattempo il pigmalione è morto per una maledetta malattia ai reni e ci ha lasciato inconsolabili a fare i soliti discorsi sui migliori che se ne vanno.

Guilty Simpson ha una serie di qualità che è difficile trovare combinate nell’hip hop odierno. Innanzitutto parla di strada, come il novanta per cento dei suoi colleghi là fuori, e si sa che al di là dei moralismi e del christian rap e dei rivoluzionari illuminati, chi ascolta il rap vuole sentire parlare anche e soprattutto di pistole, spaccio di droga, poliziotti maiali e vita nei quartieri malfamati. “Ode to the ghetto”, da questo punto di vista, è un titolo programmatico. Poi c’è il discorso del flow: Guilty, invece di aggredire la base e dilaniarla a colpi di rime come nella migliore tradizione dell’east coast, preferisce surfarci sopra, accompagnarla, farla suonare. Ogni sillaba è portante, nella rappata dell’mc di Detroit, e tutto è accuratamente studiato per solleticare l’orecchio dell’ascoltatore. Questa grande musicalità emerge ancora di più nei ritornelli: il Simpson colpevole (ammesso che O.J. sia innocente…) dà il suo meglio nei chorus, e raggiunge probabilmente l’apice con la filastrocca lisergica di “I must love you”. Ma non è finita qua. La differenza principale tra Guilty e la miriade di rapper talentuosi che popolano il suolo americano è che sa scegliersi benissimo i produttori. “Ode to the ghetto” è un prodotto Stones Throw, per cui già prima di sbucciare la nostra banana sappiamo che ha il bollino blu appiccicato sopra. Non è il caso di stupirsi quindi se metà del disco è affidata all’estro di Madlib e di suo fratello Oh No (che per via di questa parentela viene trattato come se fosse un Hugo Maradona o un Digao qualsiasi, mentre in realtà vale quasi quanto il fratellone) e se il lavoro dei due californiani è entusiasmante come sempre. Una piccola e piacevole sorpresa viene invece dal constatare che Madlib, un sostenitore della batteria jazzata figa ma lo-fi, ha sfornato per l’occasione alcuni beat dal sapore volutamente epico: la base di “American dream”, per dire, potrebbe fare da colonna sonora al duello finale di un western, nel caso Spike Lee si volesse cimentare nel genere. Ma non divaghiamo. Non è da meno, musicalmente parlando, l’altra metà dell’album, affidata alla crème di Motown: il compianto Jay Dee firma due chicche postume, Black Milk dimostra di aver assorbito molto bene la lezione del maestro e anche Porter, conosciuto dai più (ovvero da me) perché parte della D12, il collettivo di Eminem, fa il suo senza sbavature.

“Ode to the ghetto” è un disco compatto e completo, senza punti deboli. Guilty Simpson è un mc molto più all’avanguardia di quanto un ascolto frettoloso e superficiale potrebbe suggerire, una specie di Snoop Dogg 2.0; il suo flow, ineccepibile dal punto di vista espressivo, è ulteriormente valorizzato da frequenti giochi di parole, che a loro volta spesso veicolano immagini folgoranti ed estremamente incisive. Molti dei ritornelli del cd sono del tipo che ti ritrovi a canticchiare in maniera sconnessa quando sei a un passo dal coma etilico; magari non riesci nemmeno a ricordare chi li ha cantati, eppure ti sono entrati così sottopelle che dove non arrivano le tue facoltà mentali arrivano loro, appena prima dell’ambulanza e della lavanda gastrica. Le basi si rifanno al filone clubbeggiante, il che appaga il nostro lato tamarro e animalesco; ma dato che il tocco autoriale c’è e si sente, anche la nostra coscienza non sa a cosa appigliarsi ed è costretta ad ancheggiare in maniera sguaiata, abbandonandosi al ritmo. In più, il tutto è perfettamente coerente e suona attuale pur piacendo.

E allora perché “Ode to the ghetto” è stato snobbato non dico dai registratori di cassa dei negozi, ché la cosa non mi avrebbe stupito nemmeno un po’, ma persino dalla critica specializzata? Cosa vogliamo chiedere di più a un disco? Che ci faccia il bucato? Che contribuisca a pagare le bollette? Io davvero non lo so, per quanto mi riguarda sono a posto così, se l’ho votato disco dell’anno è mica per fare il bastian contrario, ma perché se lo merita.

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