ROBERT HOOD, Fabric 39 (Fabric, 2008)

Chi non avesse mai avuto modo di ascoltare niente di uno dei più duri e puri della scena techno detroitiana potrà certamente farsi un’idea con questo capitolo della serie “Fabric”.
Nel proprio volume di competenza il buon Robert si limita (si fa per dire) ad elargire un saggio di techno minimale, a suonare, né più né meno, allo stesso modo di come avrebbe potuto fare una decina di anni fa. L’aspetto impressionante sta nel fatto che la techno che egli stesso produce da oltre quindici anni è ancora viva, dimostra spessore ed è, soprattutto, estremamente riconoscibile.

In “Fabric 39” vengono inanellati una serie di pezzi che farebbero individuare la presenza di Hood ai piatti a chiunque avesse un minimo ricordo del suo stile. Lo stile di chi è cresciuto spalla a spalla con Jeff Mills ed è riuscito a coltivare il proprio canone esspressivo e a renderlo personale; lo stile di chi ha prodotto il secondo dei tre volumi della serie “Waveform Trasmission” (l’unico non ad opera di Mills) e che è uscito per etichette simbolo del genere come Tresor, Peacefrog, Cheap e M-Plant (da lui stesso fondata).
Nei trentadue frammenti della tracklist, avvicendati e fusi con foga spasmodica, troviamo l’essenza di un suono aggressivo e dalle ritmiche incalzanti, che si identifica con una lista di nomi dai quali non si può prescindere: Pacou, Dj Skull, John Thomas, Jeff Mills, e, ovviamente, Robert Hood. Accanto alle ossessive battute di una techno fine, a tratti metallica e ripetitiva, trovano spazio piccoli giri house (“The Greatest Dancer” – Robert Hood, “Bust The Vibes” – Fab G), profonde scosse dub-tech in stile Basic Channel (“Legalize!” – Solid Decay, “One Side” – Scorp), techno-latinismi (“Sandune” – Dan March) e, soprattutto, una visceralità che percorre ogni battuta, costantemente palpabile e rintracciabile in quella particolare tensione tra fredda simmetria elettronica e calda fisicità che caratterizza questo suono.

Un cd-mix per poter dire che Robert Hood ai piatti è proprio come lo si poteva immaginare. Per i non ancora affezionati questo potrebbe essere un buon punto da cui partire. Chi poi volesse affondare le mani nella storia del genere può attingere da “Internal Empire” del 1994 (Tresor).

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