MATT ELLIOTT, Howling Songs (Ici D’ailleurs, 2008)

Il poliedrico estro di Matt Elliott pare aver trovato la sua consacrazione definitiva in un intimismo oscuro e raccolto, quasi claustrofobico, ispirato da una sensibilità artistica fuori dal comune.
“Howling Songs” racchiude in sé tutto il fascino di un mondo in perenne decadenza (lo si nota ancor prima di inserire il disco nel lettore, ammirando l’inquietante fascino sprigionato dai disegni di Vania Zouraliov), di fronte al quale l’unico rimedio rimasto sembra essere una misera rassegnazione, interrotta da sprazzi di lucida consapevolezza che urlano all’universo tutta l’urgente disperazione di chi si rende conto ormai troppo tardi di essere alla deriva.

Le nove ballate che donano grazia al terzo capitolo della tormentata trilogia musicale di Matt Elliott, iniziato con “Drinking Songs” e proseguito con “Failing Songs”, gemono disperate tra atmosfere cupe e nebulose e si incuneano con elegante discrezione fin sotto la pelle, per poi deflagrare con tutta la loro energica disperazione attraverso cascate di pura energia.
Matt Elliott dimostra ancora una volta di possedere una sensibilità particolare, tipica di coloro che anticipano i tempi, e con disperazione tenta di lanciare il suo messaggio di imminente deragliamento dell’umanità ai posteri nell’unico modo che conosce: l’arte fatta musica.

La sua personale lezione di tradurre in suoni la sua anima tormentata gronda di un fascino oscuro e debordante e si materializza nelle vesti di improvvise eruzioni elettriche, che sfondano con rabbia le raffinate trame orchestrali fino a poco prima elegantemente tessute ed i romantici echi balcanici evocati con indubbio gusto.
“Howling Songs” sprigiona fascino dalla prima all’ultima nota, è impregnato di un magnetismo oscuro che attira ed imbriglia come se ci trovassimo di fronte ai fili di un’ipnotica ragnatela. Il risultato è inevitabile: se ne rimane imprigionati, persi nei romantici echi delle rarefatte ambientazioni orchestrali, che evocano tutta la passione per una folk-music di chiaro stampo mediterraneo.

Il mood tormentato dell’intero lavoro è preannunciato dall’oscura e violenta “The Kubler-Ross Model”, undici minuti di criptico intimismo squarciato da dilanianti spasmi elettrici che andranno poi a spegnersi nell’opprimente e romantica pioggia autunnale di “Something About Ghosts”, in un’altalena di chiaro-scuro che pervaderà l’intero lavoro. Il fascino magnetico continua a galleggiare in trasparenza, aleggia nell’aria, lo si può solo annusare nei romantici echi di “How Much In Blood?” o intravedere nelle nostalgiche trame di “Song For A Failed Relationship” e addirittura percepire nei contorni più sghembi e spigolosi di “A Broken Flamenco”, ma ci si accorge ben presto che mai e poi mai riusciremo a possederlo in tutta la sua maledetta essenza. Così la caracollante poesia di “Bomb The Stock Exchange” (mai titolo fu più evocativo) ci accompagna dolcemente per mano verso la fine del personale tunnel evocato da Matt Elliott, alla ricerca di una luce quanto mai lontana e sempre più offuscata da minacciose nubi che si percepiscono all’orizzonte. Forse è meglio così, a volte la piena consapevolezza di ciò che ci circonda può esserci fatale e la poesia è l’arma migliore per descrivere la deriva di un mondo marcio fino al midollo.

Matt Elliott pone così termine alla sua tormentata trilogia, con la quale ha messo in musica l’ipotetica colonna sonora di un inesorabile declino dell’umanità: mai funerale fu così romantico e seducente.

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