OASIS, Dig Out Your Soul (Big Brother, 2008)

La Grande Storia ci ha insegnato che è sempre meglio diffidare dalle dichiarazioni di mr. Noel Gallagher. Non tanto quelle sul fatto che gli Oasis possano essere più importanti di Dio – cosa, tra l’altro, ormai scientificamente provata – quanto sulle possibili strade prese dall’imminente uscita discografica. Questa volta sono state buttate lì senza troppa fatica parole come “psichedelia” e “sperimentazione”, una strada nuova per la band dei Fratelli Tispaccolafaccia (cit.) che potrebbe sconvolgere i più.

Poi metti sul piatto questo “Dig Out Your Soul” ed inizi a capire il senso dietro alle parole del Big Bro: la sperimentazione infatti è del tutto nell’ottica oasisiana e più che altro la possiamo tradurre come il raggiungimento di una maggiore libertà dall’ossessiva ricerca del ritornello sing-along obbligato.
Per noi, ormai abituati a dischi interi di fruscii, feedback, malattie e rutti vari, la loro idea di psichedelia appare quasi risibile, eppure non c’è nulla di sbagliato nelle sue parole: la sua è un’idea retrò, che prende dagli anni ’60, dai Pretty Things, dai Cream, dai Beatles, sì, ma neanche troppo, verso un rock’n’roll da puro instant classic.

Se non fosse bastata “The Shock Of The Lightning” – probabilmente il loro singolo migliore da anni – cafona e trascinante quanto serve, “Bag It Up” mette già in chiaro la faccenda con un attacco capace di affossare definitivamente le ultime superflue uscite dei Primal Scream. Si tratta soltanto di rock’n’roll, questo è certo, ed è proprio lì che la penna dei quattro torna a trovare l’ispirazione: sia quella di Noel, verso i Doors di “Five To One” in “Waiting For The Rapture” e il caro vecchio blues-rock in “(Get Off You) High Horse Lady”, sia quella di Gem Archer per il mantra alla Kula Shaker di “To Be Where There’s Life”.
Ma la vera sorpresa è Liam, songwriter sottovalutato e sfottuto per anni, finalmente a fuoco quanto il fratello lungo tre momenti puramente Lennoniani: “I’m Outta Time” (ballata malinconica dedicata al Maestro), il roccaccio grezzone di “Ain’t Got Nothing”, e l’incedere ipnotico di “Soldier On”, vera perla nascosta del disco, che chiude le danze in un’atmosfera quasi dub. Curioso, nevvero?
Unico neo, un Andy Bell palesemente ubriaco di Led Zeppelin piazza una ben poco ispirata “The Nature Of Reality”, che pur avendo tutti i suoni perfetti non riesce ad andare davvero da nessuna parte.

Se non bastasse il songwriting, Dave Sardy e gli studi di Abbey Road fanno il resto: tastiere vintage a go-go, fra hammond e mellotron, cambiano il suono della band in un senso che perfeziona la direzione presa (ed aimè abortita) ai tempi di “Standing On The Shoulder Of Giants”. Là c’erano le ballate, qui invece una forte presenza di ritmo (per l’ultima volta, forse, affidato alle solidissime pelli di Zak Starkey) anche nei momenti più intensi, come l’ormai celebre non-singolo “Falling Down”, al punto che non sembra neanche così ardito ammettere di trovarsi finalmente di fronte ad un ritorno degno dei loro tempi migliori.

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