Rock en Seine 2007 (Parigi) (24-26 agosto 2007)

A Parigi il cattivo tempo non solo è comune, ma dovrebbe pure donare al già romantico paesaggio una ulteriore aura di romanticismo, come suggerisce la tipa che occhieggia felice da sotto l’ombrello sulla copertina della Lonely: ma la pioggia persistente e il cielo tardo autunnale che mi accolgono all’aeroporto di Orly mi gettano nello sconforto più nero. E’ solo giovedì, Rock en Seine comincia domani, ma i presupposti meteorologici, assieme all’albergo che teoricamente doveva essere comodo ma che in realtà richiede l’utilizzo di tutte e tre le reti urbane su rotaia per essere raggiunto, mi fanno intuire un weekend tutto in salita (e per fortuna non abbiamo optato nel campeggio, nonostante fosse incluso nell’abbonamento). Spero vivamente di essere confutato.

Venerdì 24 agosto

La pioggerellina novembrina del mattino lascia spazio a qualche timido raggio di sole nel primo pomeriggio, giusto in tempo per mettersi in fila per la lunga procedura di ingresso, scansione biglietti elettronici, perquisizione (alla francese, quindi non per finta), braccialetto e ulteriore fila per l’entrata all’area del festival vero e proprio. Speriamo bene: oggi è il giorno più interessante, i nomi sono da grida di giubilo tutti stipati nel giro di poche ore. Solo che tutta l’acqua che si è riversata sul Domain de Saint Cloud nei giorni precedenti lo ha reso una specie di palude, a stare in piedi troppo a lungo nello stesso punto si rischia l’effetto sabbie mobili… ma anche questo fa molto festival. Britannici felici mi passano accanto affondando i piedi nudi nel fango fino alle caviglie, gli ricorderà probabilmente Glastonbury.

Guadagno quindi la Scene de la Cascade, uno dei due palchi secondari, per vedere finalmente da vicino i primi campioni della giornata, i Dinosaur Jr: siamo in buona posizione ma prima ci tocca di sorbirci i Rock & Roll, una sorta di versione locale dei Libertines su cui è meglio tacere. Finora ero riuscito a perdermi i Dinosauri sia a Urbino nel 2005 che l’anno scorso, ma stavolta sono in prima fila… anche se mi devo accontentare di un breve set da primo pomeriggio, per giunta su un palco secondario: così i parigini trattano i nostri tre eroi redivivi. Murph si prepara facendo stretching ai lati del palco, Lou Barlow e J Mascis si tolgono gli occhiali, e poi il set comincia, il volume è ovviamente a palla. Barlow è cinetico, muscolare, Mascis lascia ondeggiare i lunghissimi capelli bianchi picchiando sopra la Fender, in trance. I brani arrivano dall’ultimo clamoroso album (ma mancano “Almost Ready” e “Pick Me Up”, peccato) e dal glorioso passato, “Little Furry Things”, “Feel The Pain”, l’immancabile “Just Like Heaven” a infiammare il pubblico. Loro sembra quasi che non se ne accorgano, tirano dritto rocciosi (o forse non ci vedono senza occhiali, come dice Lou ridendo a metà set), accordano fra un pezzo e l’altro con le uscite sulle casse aperte a manetta. In un attimo finisce tutto, e loro tornano ad essere tre tizi che potresti incontrare al supermercato a comprare lattine di birra. Quanto di più simile a divinità del rock’n’roll, per quanto mi riguarda.

Ma è già ora di spostarsi sulla Grand Scene, attraversando tutto il parco, dove troviamo i Mogwai a metà set: mi sembrano in buona forma, loro, ma a non funzionare è lo scenario da festival pomeridiano, dominato dallo svacco sul prato, dalle bancarelle i kebab e gli hamburger. I suoni rarefatti degli scozzesi sembrano perdersi nella luce del giorno, farsi inconsistenti e scivolare nella distrazione generale.

Le cose sono destinate a cambiare in fretta, perché sul palco principale sta per arrivare una delle semi-esclusive continentali del RES, e uno dei momenti più attesi dal sottoscritto: gli Shins, finalmente. Un ripensamento dell’ultima ora ha consigliato agli organizzatori francesi di spostarli dalla Cascade alla Grand Scene, visto che ormai la definizione di band di culto sta stretta ai quattro più uno di Albuquerque, NM; il pubblico che si assiepa sotto il palco e li saluta con un boato conferma la bontà della scelta. Chi invece non sembra essersi abituato al successo planetario sono proprio James Mercer e soci: suonano bene, ma sembrano tirati, quasi intimiditi dal pubblico straniero. Gli Shins sono ancora quella band di liceali ultratrentenni che per qualche caso strano si trova fra le mani una miniera di melodie da perderci la testa. Appunto: la sequenza di perle che sciorinano nell’oretta scarsa a loro concessa è roba da togliere il fiato, si parte da “Sleeping Lessons” e le altre highlights dell’ultimo “Wincing the Night Away” per poi toccare le vette del secondo album, “Gone For Good”, “Kissing the Lipless”, “So Says I”, fino a “Caring is Creepy”, unica ripescata dall’esordio… tutti cantano, ma Mercer, serio e concentratissimo, non sa o non vuole sfruttare la partecipazione del pubblico, anche quando i cori sgorgano naturali, come sulla immensa “St. Simon” o il singolone “Phantom Limb”. Quando ringrazia viene praticamente travolto dalle ovazioni, sembra quasi farsi piccolo. Tre quarti d’ora sono pochi per placare la sete di Shins, chissà se mi toccherà pigliare un altro aereo per rivederli.

L’imminente arrivo degli Hives sulla Grand Scene suggerisce che è il momento di andare a mangiare un boccone e lasciare sbollire da lontano il pogo, tanto “Two Timing Touch and Broken Bones” l’abbiamo già sentita. E poi bisogna recuperare le forze per il finalone della prima giornata.

Tutto lascia presagire che stasera gli Arcade Fire faranno il botto: avevano partecipato a RES 2005 da comprimari dimostrando tutto il loro potenziale, dopo solo due anni hanno l’onore di tornare come headliner, e dopotutto sono anche mezzo francofoni. E invece… si limitano a fare uno show secondo i loro standard: cioè altissimi, quindi più che sufficienti a fare il botto di cui sopra e portare il pubblico al delirio. Eppure li avevo visti più carichi nella mia Ferrara, più comunicativi (qua non vanno oltre un merci beaucoup qua e là), non è decisamente lo show della vita. Detto questo, lo spettacolo è comunque travolgente, con una setlist molto simile alla recente data italiana, con un paio di brani in meno: da “Keep the Car Running” alla già classicissima “No Cars Go” (che Win Butler presenta come brano nuovo, ma l’avevano suonata qui anche due anni fa), fino al tripudio di brani da “Funeral”, con nel finale l’ondata impetuosa di “Rebellion” e la catarsi di “Wake Up” come unico bis. I canadesi si confermano fenomenali agitatori di folle, tra i pochissimi in grado di trasformare un live set in un rito di purificazione collettivo, forti di un repertorio finora immacolato. Tanto basta, per oggi, la Storia la scriveremo un altro giorno.

Scivolo assieme alla folla per l’uscita aperta di fianco alla Grand Scene, fuori le forze dell’ordine fermano lo scalpitante traffico parigino per permetterci di raggiungere il tram.

Sabato 25 Agosto

Il tempo torna ad essere estivo e mi faccio prendere dal liberatorio furore del turista ignorante, dopotutto siamo a Parì: così succede che fra un salto allo Starbucks sotto la Piramide e un giro attorno a Notre-Dame arrivo tardi per vedere The Fratellis. Decido che tutto sommato posso sopravvivere lo stesso e controllo il programma: oggi non ci si muove dalla Grand Scene.

Arriva qui una sorpresa: i Cold War Kids sono stati chiamati all’ultimo minuto per sostituire Amy Winehouse (!). Non ho mai prestato molta attenzione ai quattro californiani, forse per le loro vicinanze alla scena del rock cristiano. Dal vivo invece hanno forza e passione, nervi e sudore in vista: l’energia si può quasi toccare, e Nathan Willett è un frontman generoso. Nei momenti migliori sembrano quasi dei piccoli Radiohead, nelle ambiziose costruzioni strumentali e nelle liberatorie aperture vocali e… l’anno scorso c’erano i Radiohead veri, però. Bisogna pur consolarsi in qualche modo.

Cade giusto a metà pomeriggio, con la tentazione di una pennica sulla collinetta che costeggia l’area della Grand Scene, l’esibizione del neo solista Jarvis Cocker. Dandy, egocentrico, logorroico fino al parossismo: continuamente alla ricerca di un podio o un pulpito passa più tempo issato sulle spie che sul palco, si incarta in interminabili, sconclusionati sproloqui sul cielo e le nuvole in un francese stentato, per poi scusarsi della scarsa conoscenza della lingua nonostante gli anni passati in Francia. Il repertorio viene tutto dall’esordio solista, il passato Pulp viene accuratamente rimosso: i lustrini glam della Disco 2000 sembrano essersi spenti per sempre, si viaggia dalle parti di un pub rock a tratti piacevole, a tratti deprimente come un doposbronza. La band, solida e anonima al tempo stesso, non fa che rafforzare l’impressione generale, troppo media, cui non sopperiscono i tragicomici siparietti di Cocker. In chiusura arriva addirittura una cover di “Paranoid” dei Black Sabbath, ossequiosamente filologica, se chiudo gli occhi posso immaginare che ci sia Ozzy sul palco: cosa non si fa per scacciare i fantasmi del passato.

La pausa ristoro coincide con un breve salto alla Scene de la Cascade per rivedere da lontano gli animali da festival per eccellenza dell’ultimo anno, le onnipresenti CSS: come ebbe a dire il kalporziano Bardelli a Italia Wave, il gruppo che vorresti a suonare alla festa del tuo compleanno. Quando sparano “Let’s Make Love” in tutta la sua ignoranza sulla folla non c’è, come al solito, culo che riesca a stare fermo. Ma non posso farmi trascinare più di tanto, bisogna tornare in tutta fretta alla Grand Scene per un’altra chicca di RES 2007.

Chi l’avrebbe detto che un giorno avrei visto The Jesus and Mary Chain dal vivo? La formazione è completamente rinnovata, ma alla guida ci sono sempre loro, i fratelli Reid: Jim ha la faccia di uno che gli tocca di rimanere concentrato mentre sta facendo qualcosa di molto spiacevole; William è praticamente raddoppiato in stazza, sotto i soliti capelli a cespuglio e gli occhiali scuri non puoi fare a meno di notare il doppio mento, anche perché se ne sta sempre di profilo a tenere a bada il micidiale feedback dagli amplificatori. Non so se i motivi che li hanno spinti alla resurrezione siano più o meno “alimentari”, ma la mia impressione è che i Jesus si siano ammorbiditi quel tanto che basta per portare in giro un decoroso greatest hits show, lucidamente consci dell’opportunità di essere salutati come leggende viventi e non come eterni caratteracci attaccabrighe. I fan sono numerosi e le emozioni non mancano: il trionfo è scontato su “Reverence”, “Some Candy Talk”, “Happy When It Rains”, “Just Like Honey” (invano attendo l’apparizione di Scarlett Johansson come al Coachella). Però non ce la faccio, lo devo dire: a sentirle così in fila sono tutte uguali. Per anni i Reid hanno riformulato, rimasticato, levigato le fulminanti intuizioni degli esordi… ma non roviniamo la festa, alla fine Jim regala perfino qualche sorriso tirato e io posso aggiungere una tacca alla lista dei Miti Visti Dal Vivo.

La serata chiude con i Tool, e io non sono la persona giusta per parlarne, visto che non frequento gli ambienti metallici dalla mia lontana adolescenza: eppure mi sentirei di consigliare a chiunque di vederli, almeno una volta nella vita. A patto di avere uno stomaco forte: i megaschermi riproducono il loro famigerato immaginario, popolato da corpi in disfacimento, minati da orridi parassiti e consumati da pestilenze innominabili. Lo show è comunque sontuoso, immaginifico, appaga la vista con un light show degno dei Pink Floyd (era da quel giorno a Modena che non vedevo un uso così cospicuo di laser traccianti), dentro il quale i quattro sembrano scomparire, ridotti a sagome che si stagliano contro gli schermi alle loro spalle.

Domenica 26 Agosto

Dopo una obbligatoria passeggiata domenicale a Montmartre attraversiamo per l’ultima volta i tornelli che portano al Domain de Saint Cloud. La giornata mi sembra fatta apposta per gironzolare, tanto fino a sera, quando sua altezza Björk chiuderà il festival, non succede niente di speciale.

Alla Grand Scene mi trovo di fronte ad un mistero inspiegabile: cos’ha di speciale Mark Ronson? Il nostro, già affermato produttore, patrocina un affollato collettivo di vocalist e strumentisti, impegnati in cover in chiave rythm’n’blues di brani di Radiohead, Coldplay, Kaiser Chiefs… roba da ascoltare al pub sorseggiando un Manhattan. Diamogli pure atto di aver riscoperto una gemma mezza dimenticata degli Smiths, “Stop Me” (tenuta rigorosamente in fondo alla scaletta, e cannano pure l’attacco) ma davvero non ho visto niente più di una media cover band, punto.

Il pomeriggio è bellissimo e si passeggia per il parco, fra bancarelle varie: si capita così nei pressi della Cascade, dove si esibisce Kelis: vestita con un improbabile completo fuseaux-canottiera di lamè messo a ricordare che lei il fisico ce l’ha e se lo può permettere, propone uno show americano come me ne capita di vederne pochi, arriva sul palco per ultima e se ne va per prima da vera vedette, fa pigliare coccoloni alle prime file con scosse di bacino da galera. La voce però, da sempre bassa e pastosa, qui mi sembra più che altro opaca, fessa. Molto meglio la corista.

Come gli Hives ieri, i Kings Of Leon sul palco principale mi sembrano perfetti per essere ascoltati a debita distanza mangiando un kebab, e mi perdo sia Just Jack alla Cascade che Albert Hammond Jr sulla Scene de l’Industrie (palco che alla fine avrò visto per circa dieci minuti complessivi durante i tre giorni). Il penultimo act del RES 2007 si chiama Faithless: e qui la sensazione è stranissima, mi sembra di trovarmi a Berlino primi anni ’90, perché da quel mondo lì, da quei suoni lì, Maxi Jazz e soci non si sono spostati di un millimetro: qui siamo in piena cultura rave, fuori tempo massimo, fuori tempi supplementari. Eppure è stranamente affascinante vedere, nello splendido sole del tramonto, il prato di Saint Cloud trasformato in una enorme disco, perché il popolo festivaliero sembra gradire indiscriminatamente l’imperativo del “muovi le chiappe”.

Eccoci arrivati all’epilogo: Björk. E’ complicato rendere conto di tutte le sensazioni che mi passano addosso durante il set dell’islandese. Mi viene da pensare che è in forma, molto più dell’unica altra volta che l’ho vista, quattro anni fa; che è sempre avanti, che ogni cosa che fa manifesta curiosità, voglia di stupire e coinvolgere. Questa volta ha una sezione di fiati femminile che porta vessilli sulla schiena come antichi guerrieri giapponesi, mentre i manovratori elettronici giocano con console luminose dove appoggiano pedine che generano suoni differenti. D’altra parte mi viene da pensare che, quando l’ispirazione della Nostra è meno che superlativa, sono meno disposto a perdonarle certi eccessi. Insomma, Björk ha un enorme talento ma gioca sempre sul filo del pacchiano, dell’ultrakitsch, e con un disco interlocutorio come “Volta” da portare in giro certe cose saltano più all’occhio, a cominciare dall’incartamento dorato da Ferrero Rocher con cui la signora si presenta sul palco. I brani vecchi, da “Homogenic” e “Vespertine” soprattutto, vengono riarrangiati per fare spazio agli ottoni che dominano il nuovo album, e fin qui la curiosità di assaggiare gusti differenti; ma si parlava di tamarraggine, e lo scenario festivaliero rappresenta una tentazione troppo forte, con il pubblico che dopo i Faithless ha ancora voglia di saltare. Così succede ad esempio che il secondo chorus di “Hyperballad” venga travolta dal beat isterico di “Pluto”, e siamo di nuovo alla Love Parade en Seine 2007; sul palco, dietro i bellissimi stendardi della scenografia riappaiono i laser, devono esserseli dimenticati i Tool da ieri. Il finale è liberatorio: la nuova “Declare Indipendence” è una botta di energia devastante e perentoria che fa ondeggiare la folla nell’ultimo sussulto.

Appena un attimo dopo RES 2007 è consegnato agli annali, e i megaschermi ci salutano diligenti con un au revoir all’anno prossimo. Chissà. Dopotutto non sono nemmeno riuscito a entrare a Notre-Dame…