TOdays Festival, Torino, 26-28 agosto 2016

Le periferie urbane sono state e continuano ad essere angoli cittadini abbandonati all’oblio e alle dimenticanze delle amministrazioni comunali. “Via Francesco Cigna”- periferia torinese – postazione logistica della seconda edizione de il TOdays Festival, nella tre giorni 26-28 agosto 2016 si è trasformata in un posto di ritrovo vivo e popolato – difficile parcheggiare la macchina – da persone di tutte le età. Un pubblico numeroso, vario ed eterogeneo, quindi: si va dalla compagnia di ragazzini pazzi per la musica pop, catchy, barocca, spielbergeriana/joedantiana anni ottanta, di Anthony Gonzalez (M83) agli appassionati cinefili che, all’entrata della Ex Fabbrica Incet , discutono su quale sia il lungo/corto-metraggio più bello girato da John Carpenter cominciando a parlare di Body Bags (1993) , film ad episodi per la TV, con il regista americano nel ruolo del narratore Zio Tibia. La gente, però, pur con gusti (musicali) diversi, alla fine si riunisce in strada, cammina in gruppo, per spostarsi da una location all’altra: dallo Spazio 211 alla già citata Ex Fabbrica Incet, dal Museo Ettore Fico al Parco Verde Aurelio Peccei. Tante ore – dalle 19 alle 4 (fatta eccezione per domenica, fino alle 24) – di concerti e di musica internazionale ed italiana: diversi momenti memorabili e qualche episodio kitsch e surreale (alla voce, live dei Crystal fighters).

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La prima giornata, quella di venerdì 26, si fa(rà) ricordare per lo spettacolo caramelloso e scintillante a base di tastiere/synth e sax anni ottanta degli M83: Anthony Gonzalez, con la sua ottima band, mette in scena l’immaginario electro pop da (tele)film americano patinato racchiuso nelle sue produzioni discografiche più recenti, “Hurry Up, We’re Dreaming” (2011) e “Junk” (2016). La scaletta è quindi incentrata quasi totalmente sui brani degli ultimi due album, suonati in modo fastoso ed appariscente: “Reunion”, “Do It, Try It”, “Steve McQueen”, “Road Blaster”, “Bibi the dog” (con la partecipazione di Mai Lan), “Go!”. Le atmosfere sognanti ed eteree (pur presenti) sono quindi, sempre più, soppiantate dalla potenza espressiva e dalla orecchiabilità easy listening di soluzioni sonore a metà tra synth pop di facile presa ed elettronica junky da consumo immediato. Il tutto, però, è perfetto nei minimi dettagli, come nei film americani, d’altronde solo tre anni fa Gonzalez curava la colonna sonora di “Oblivion”, film hollywoodiano fantascientifico con protagonista Tom Cruise.

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E se si parla di cinema, è impossibile non citare il live, sempre di venerdì notte, di John Carpenter, regista tra i maestri del cinema horror americano della seconda metà del novecento, grande artigiano factotum, abile nel girare e produrre, soprattutto ad inizio carriera, film a basso budget, di cui, per una ragione puramente economica, realizza le colonne sonore. Adesso che, però, Hollywood da diverso tempo sembra essere sempre più lontana dal cinema di genere carpenteriano – che, come quello di Romero, va oltre il concetto di intrattenimento puro contenendo una sottile critica alla società capitalistica – il regista nel tempo libero gioca con i video games, suona con il figlio Cody utilizzando Logic Pro. Negli ultimi due anni sono già usciti due dischi, “Lost Themes” (2015) e “Lost Themes II” (2016), e a partire dalla primavera di quest’anno – inizio ufficiale, il 20 maggio 2016 al Bootleg Theater di Los Angeles – Carpenter, insieme al figlio Cody, al figlioccio Daniel Davies (sì, sì, il padre è Dave Davies), a John Konesky, a John Spiker ed a Scott Seiver, porta in tour le proprie colonne sonore e i “lost themes”, ossia musiche immaginarie per film mai esistiti. Il punto di partenza dell’universo sonoro carpenteriano è la passione per i synth, nata ascoltando la colonna sonora di due film usciti nel 1977: “Il salario della paura”, remake targato William Friedkin della pellicola italo-francese “Vite Vendute” (1953); “Suspiria”, primo capitolo argentiano della trilogia delle tre madri. Il primo film è musicato in stile progressive electronic dai Tangerine dream, il secondo in chiave horror synth dai Goblin ed è una vera e propria fonte di ispirazione per le musiche minimali – basate su poche note – di “Halloween” (1978). Elemento fondante della musica elettronica carpenteriana è quindi l’impianto cupo ed essenziale, presente anche nelle colonne sonore successive, che dal vivo, a Torino, riescono a trovare la dimensione giusta, anche se sono fuori dal contesto originario, quello del film. Il merito è di un ottimo gruppo di musicisti e del regista americano : Carpenter si diverte e non si prende mai troppo sul serio, soprattutto quando, durante il tema di principale di “Essi vivono”, indossa gli occhiali da sole come John Nada (protagonista della pellicola) od, ancora, quando a fine concerto invita a stare attenti a Christine ché potrebbe nascondersi ovunque, “ritornando a casa, guidate con attenzione. Christine è là fuori”. Il massimo dello spasso insomma: se ne sta fermo dietro le tastiere – sguardo e sorriso beffardi – e lancia occhiate di sfida, dall’aria ironica, al pubblico. Ai classici – “Fuga da New York” ,”Distretto 13: le brigate della morte” , “Fog”, “Essi vivono”, la reinterpretazione del tema morriconiano de “La Cosa”, “Grosso guaio a Chinatown”, “Halloween”, “Il seme della follia” e tanti altri – vengono alternate le tracce composte di recente, incluse nei (due) capitoli dei “Lost Themes”: “Vortex”, “Distant dream” e “Virtual survivor”, solo per citarne qualcuna. E le differenze non si notano: il marchio di fabbrica è tale e quale.

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La seconda giornatasabato 27– è incendiata, quando ancora il sole picchia forte, dai Giuda. Ormai la glam-rock’n’roll band romana, con tre ben dischi alle spalle – “Racey roller”(2010), “Let’s do it again” (2013), “Speaks evil” (2015) – e tanti di quei concerti in giro per l’Europa e gli Stati Uniti, è padrona assoluta del palco: un muro potente di suoni graffianti, di riff indistruttibili ed una presenza scenica esplosiva, travolgente, quasi incontenibile, tant’è che (come da foto) Tenda (il cantante) salta davanti alla fossa dei fotografi cercando il contatto con il pubblico e le prime file lo seguono, tengono il ritmo, battono le mani cantando il ritornello di “Wild tiger woman”. Un concerto più breve del solito, solo mezz’ora, però l’energia, il sudore sprigionati dal gruppo sono pari a quelli di un live di due ore, interminabile e dirompente. E nel finale c’è spazio pure per una cover, inaspettata o forse no: il chitarrista Lorenzo Moretti suona ed interpreta “Saturday Night’s Alright For Fighting”, brano glam rock dell’Elton John di “Goodbye Yellow Brick Road” (1973), che però nella versione Giuda suona molto punk 77: senza fronzoli, rozza e primitiva. Niente di nuovo sul fronte occidentale (forse) ma il passato – quello delle canzoni boover rock di tante formazioni glam inglesi misconosciute – non è stato mai così bello, vivo ed attuale. E se n’è accorto pure il quotidiano britannico The Guardian, che, a metà agosto, ha dedicato una paginata intera ai Giuda nell’edizione cartacea: “Giuda recreating the music of terrifying 70s english pubs”. Ed a Torino l’hanno fatto in maniera esemplare.

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Per il gran finale, fuori dallo Spazio 211, sabato sera salgono sul palco i Jesus and Mary Chain, padri fondatori dello shoegaze. Sembra che i fratelli scozzesi stiano lavorando ad un nuovo album (colossale schifezza o rinascita?). Durante l’oretta di concerto, però, fanno solo canzoni vecchie e (forse) è meglio così: pezzi dal disco di debutto (1985), da “Darklands” (1987), da “Automatic” (1989), da “Honey’s Dead” (1992) e da “Munki” (1998). Sullo sfondo della scenografia spicca il manifesto di “Psychocandy” in rosso, bianco e nero ma non ci pensano proprio a suonare per intero l’album d’esordio – pietra della scandalo e della rivoluzione a colpi di feedback – e a parte qualche problema iniziale, come se niente fosse, passano da un brano all’altro: Jim Reid, imperturbabile, tiene l’asta del microfono in mano e sembra un operaio scansafatiche che, mandato al diavolo il rock’n’roll, fregandosene di tutto e di tutti, canta le sue benedette canzoni e continuerebbe farlo anche se dovesse cascare il mondo. E William Reid idem: non alza quasi mai la testa, sguardo verso il basso e chitarra in mano. Si potrebbe utilizzare il termine “working class musicians”: musicisti che non sono nient’altro che onesti lavoratori. E la band scozzese nel 2016 – sì, non siamo nel 1986 – prende gli strumenti, fa il suo concerto e se ne va via senza dire mezza parola, a parte qualche “thank you”: i fratelli Reid portano avanti il proprio lavoro ed a loro va bene così. La storia l’hanno già fatta e non può più ripetersi. Quindi suonano così come gli viene, ed alla fine non lo fanno neanche male. Al loro meglio o al loro peggio, a seconda dei punti di vista.

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La terza giornata domenica 28 – si apre, in grande stile, con la psichedelia acida dei Brian Jonestown massacre. E, anche se non te l’aspetti, Anton Newcombe si è trasformato (fisicamente) in Neil Young: è vestito in total white, con lunghi basettoni in bella vista – sempre bianchi ovviamente – e occhiali da sole. L’atmosfera si riscalda subito, forse perché, come dice Newcombe, “le chitarre sono felici, sono tutte italiane”. O più semplicemente il bollore rovente del tardo pomeriggio si sposa perfettamente con divagazioni, vortici lisergici del suono d’insieme della band: lo storico Joel Gion al tamburello (che nel 2014 ha fatto pure un disco da solista, “Apple Bonkers”), Collin Hegna al basso, Daniel Allaire alla batteria (anche nei Darker my love), Rob Campanella alle tastiere/organo (prima chitarra nei losangelini The Quarter After), Ryan Van Kriedt alla chitarra (componente di The Asteroid #4 e Dead Skeletons) e Ricky Maymi alla chitarra (già membro fondatore dei BJM, in veste di batterista). Da anni – dal 1995 – si parla di (neo)neo-psichedelia ma a Torino il gruppo di Newcombe – che sembra essersi ripulito dalle droghe – vive in una realtà parallela, come se gli anni sessanta non fossero mai finiti. Canzoni come “Anemone” , “Who?” , “Servo”, al 100% sixties, suonano in maniera splendida e non come tanti, troppi brani – tutti uguali ed insignificanti – prodotti dall’ennesima formazione psych oriented.

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Il finale (davvero) indimenticabile del festival, però, è caratterizzato dal concerto dei Goat, gruppo – o forse sarebbe meglio dire collettivo – di Korpilombolo, villagio nella Svezia del Nord. L’identità dei vari componenti è ignota: non si conoscono né i nomi né i volti dei singoli musicisti. Un anonimato voluto, portato avanti fin dagli inizi: interviste solo via email, foto e concerti in maschera, senza mostrare la propria faccia. E l’obiettivo, senz’altro riuscito, è (stato) quello di creare interesse intorno alla propria musica, “world music”, così la definiscono nell’album d’esordio: musica del mondo, occidentale ed orientale senza distinzioni. Un unico continente musicale completamente inventato sulla carta ma che trova un’esistenza concreta e reali nei dischi della formazione: nel già citato “World music” (2012), in “Commune” (2014) e molto probabilmente anche nel doppio album in uscita, “Requiem”, che, a quanto pare, sembra spostarsi, però, verso sonorità più acustiche, già presenti nel brano, “I sing in silence”, uscito a maggio di quest’anno. Ma è dal vivo che viene fuori la vera anima dei Goat: la natura da jam session band. Il concerto di Torino è, infatti, un unico flusso interminabile: inizia, non si ferma mai e non vorrebbe finire. Nel mezzo dei brani c’è di tutto: afro beat, heavy psych, folk, funk, kraut. Un grande caos, inafferrabile, sfuggente: si balla e, soprattutto, si poga in maniera infernale.

(Monica Mazzoli)