Intervista agli Architecture in Helsinki

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[Questa intervista era stata realizzata da me per il numero 8 di “Sonic Magazine”, mai uscito in edicola per volontà dell’editore. Ringraziamo la redazione e Marco Aspesi per averci concesso la pubblicazione]

Ha ragione Kellie Sutherland, voce femminile, clarinetto e diosolosacosaltro degli australiani Architecture in Helsinki: la felicità, nell’arte, è sottostimata.
Eppure, basta arrivare alla traccia numero due del loro nuovo “Places Like This” per abbandonarsi a un sorriso felice: una traccia ritmica solo vocale quasi grime, ma talmente sorridente da rimanerti in testa per giorni e giorni; e quando Kellie inizia a urlare, verso la fine del pezzo, è gioia pura. Un po’ come quando Björk faceva saltellare la sua voce da bambina dispettosa nelle trame pop degli Sugarcubes, per intenderci.
L’intervista inizia con un po’ dei soliti convenevoli, ma quella voce da brava ragazza mi suona familiare. «Scusa, ma sei tu che canti su “Heart It Races”?» «Sì, perché?». E la serietà, la professionalità, il distacco del bravo giornalista si sbriciolano all’istante: «Perché la adoro, è splendida la parte in cui urli!». Lei ride, è un inizio.
In realtà Kellie è solo un sesto degli Architecture In Helsinki: il responsabile di tutti quei ritmi, di quelle canzoni così gioiose, è soprattutto Cameron Bird, il cui trasferimento a New York è stato il motore principale di “Places Like This”.
Poco male, comunque. La bellezza degli Architecture in Helsinki sta proprio nel sembrare una combriccola di pazzi furiosi, e in quelle canzoni che sembrano semplicissime, ma che in realtà continuano a sfuggirti di mano: piccole bolle di sapone pop, che scoppiano o cambiano direzione proprio quando pensi di averle finalmente catalogate.

Partiamo con qualcosa di ovvio: vi aspettavate tutto il successo di “In Case We Die”?

Direi che la maggior parte di noi come band si concentra sul fare i dischi e suonare in tour: abbiamo fatto così tanti concerti negli USA e nell’Europa del sud che probabilmente non ci siamo nemmeno resi conto di quello che stava accadendo…
Sono molto grata di tutte le attenzioni che abbiamo avuto con “In Case We Die”, ma preferiamo misurare il nostro successo su quanto siamo felici per le registrazioni e i concerti che stiamo facendo ora, e sta andando tutto molto bene.

Cameron si è trasferito a New York…

Sì, si è trasferito lì prima di iniziare a scrivere le canzoni del nuovo album; ha iniziato a comporre e poi mandava le sue idee a noi in Australia attraverso Internet. Noi ci ritrovavamo una volta alla settimana e cercavamo di costruire i demo delle canzoni; poi siamo andati in tour (assieme ai Clap Your Hands Say Yeah, e rimane un mistero come questa gente così solare abbia potuto convivere a lungo con quello stronzetto arrogante di Alec Ounsworth, NdR) e alla fine ci siamo ritrovati tutti a Brooklyn a registrare.

Come vi siete trovati lì, a contatto con quella città e quella scena musicale? È molto diverso da dove state ora?

New York di per sé è un posto diverso da tutto, e musicalmente, rispetto all’Australia, è un mondo a parte. Dove abitavamo noi, a Brooklyn, c’erano queste comunità portoricane e dominicane molto grandi, e tutti stavano con gli stereo a sparare al massimo volume il loro reggaeton a tutte le ore…una cosa del genere in Australia non succederebbe mai. Anche dal punto di vista ambientale è tutto completamente diverso…da noi è tutto molto più rilassato, ti puoi concentrare sul fare musica, mentre New York è estrema, quando fa caldo si muore, è molto costosa…ma c’è un’energia che non c’è in nessun altro posto al mondo, e noi avevamo bisogno di questo per il disco nuovo, e naturalmente tutto questo è entrato nel suono di “Places Like This”.

Anche l’artwork del disco rappresenta bene tutta questa energia, questo mondo complicato e la sua frenesia sotterranea…

Lo ha realizzato Will Sweeney, un ragazzo di Londra. La collaborazione con lui all’album è stata una cosa nuova per noi, non avevamo mai lavorato con nessun altro prima nemmeno per l’artwork, nei due album precedenti lo aveva disegnato Cameron… Per questo e molti altri aspetti, in “Places Like This” abbiamo deciso di cercare qualcosa di nuovo, e lui ha dovuto interpretare dal punto di vista visuale la nostra musica.

Sembra molto caotica, ma divertente…

Sì, ed è molto colorata, ci sono molte esplosioni…mi piace moltissimo.

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Parlavi della comunità portoricana di Brooklyn. Sarò impazzito, ma anche il loro suono è entrato nel disco…in “Debbie” c’è qualche secondo di latin sound puro…

È possibile, anche perché per questo disco ci siamo imposti di esplorare ancora di più la componente ritmica. Non abbiamo più solo una batteria elettronica: ora nelle band ci sono due batteristi, moltissime percussioni…Abbiamo messo il ritmo davanti a tutto, questa volta, abbiamo cercato di spingere il nostro limite un po’ più in là.

Come reagite quando vi definiscono una fun band? La cosa vi offende?

No! Voglio dire, la vostra musica è ballabile, divertente, ma…è tutto lì o c’è qualcosa di più dietro? Senz’altro c’è molto di più, ma noi SIAMO una fun band, la nostra musica è un’esplosione di energia positiva! Noi come persone, e collettivamente come band, abbiamo un’attitudine molto seria alla musica, ma cerchiamo di essere sempre positivi. Credo che la positività e il divertimento abbiano una reputazione davvero cattiva, come se non fossero sentimenti veri quando si tratta di creazioni artistiche. È come se tu dovessi sempre essere depresso…Il divertimento ha una cattiva reputazione, nessuno crede possa derivare da forme artistiche valide.
Eppure, noi siamo molto rigidi e severi quando si tratta di creare, e basta guardare un pochino al di là della superficie per vedere strati di altri sentimenti nella nostra musica. Non siamo dei buffoni: piuttosto, siamo molto seri sulla nostra voglia di avere un impatto positivo.

Quando si ascoltano i vostri dischi, credo che tutti si concentrino molto sulla musica, e prestino poca attenzione alle parole. Da dove arrivano i vostri testi, di cosa parlano?

È Cameron a scrivere tutti i testi, e so che il suo approccio alle liriche è quello di basarsi sui sentimenti piuttosto che raccontare storie, non è mai un succede questo, poi questo, poi questo… Prende ispirazione dalla vita reale, dalla sua e da quella delle persone che ha intorno, così come da alcune storie che ha sentito raccontare, e quello che viene fuori è qualcosa che parla di amore e di amicizia, ma non in maniera diretta.
È bello che le parole ti lascino libere di essere interpretate diversamente: Cameron dice spesso che, anche per lui, le cose che scrive hanno significati diversi a seconda dei momenti della sua vita.

Saltiamo la domanda su Bruce Willis? (durante una recente conferenza stampa in Belgio, un giornalista aveva chiesto all’attore americano quali fossero le sue 3 nuove band preferite. La risposta, a sorpresa, è stata: «Black Rebel Motorcycle Club, The Strokes and… Architecture In Helsinki!», NdR)

Sì, dai, la gente ce l’ha fatta così tante volte… (ride, NdR)

È che da lui mi aspettavo un po’ di macho country music, non gli Architecture in Helsinki…

Ma sì, credo che l’abbia detto per accontentare la figlia, quindi non gli darei tutto questo credito… (ride, NdR)

Bruce Willis gonfia i muscoli, mentre io e Kellie continuiamo a chiacchierare…dell’Islanda. Tra gli echi di Sugarcubes e di Benni Hemm Hemm contenuti in “Places Like This”, non potevo fare a meno di chiederle qualcosa su quella terra magica. In dieci minuti di intervista, siamo passati da Brooklyn all’Islanda, dalle comunità portoricane all’Australia, dove la maggior parte della band continua ad abitare: un piccolo, velocissimo giro del mondo, ubriacante come l’ottovolante del video della loro vecchia “Do The Whirlwind”, divertente come la loro musica. Seriamente divertente.

(Daniele Paletta)

www.myspace.com/aihmusic

8 ottobre 2007