EINSTÜRZENDE NEUBAUTEN, Alles Wieder Offen (2007)

Ne è passato di tempo dall’uscita di “Kollaps”, sconvolgente manifesto della destrutturazione industrial che avrebbe sconvolto la scena europea degli anni Ottanta, quando mossero i primi passi nella caotica scena underground di una Berlino divisa e contraddittoria. Eppure, dopo ventisei anni e un muro che è andato giù lasciando ancora in piedi molte di quelle contraddizioni con cui si è sempre scontrata trovando nuova linfa la multiforme creatura ideata da Mufti F.M.Einheit, N.U.Unruh e Blixa Bargeld, gli Einstürzende Neubauten resistono. Anche se nell’avvicendarsi tra i vari componenti, solo gli ultimi due hanno resistito al lungo e tortuoso percorso compiuto dal collettivo tedesco. Dai coraggiosi esordi ai confini del rumorismo antimelodico passando per la quadratura del cerchio di capolavori quali “Halber Mensch” e “Haus der Luge” con cui accoglievano il loro armamentario fatto di tubi, martelli pnueumatici, bidoni, travi, seghe circolari in panorami non meno apocalittici, ma certamente meno disarmonici fino all’approdo verso territori a metà strada tra cantautorato da teatro espressionista e pura avanguardia, in cui le peculiari ritmiche spigolose e convulse sono riadattate inserendo coraggiosamente il rumore nelle consuete altalene tra piani e forti. “Alles Wieder Offen”, primo album realizzato in completa “autonomia discografica”, non è che l’ultima tappa di questa lunga evoluzione, dopo tre anni di apparente silenzio che hanno visto l’uscita di dieci progetti distribuiti su internet per i soli iscritti al fan club che in cambio contribuiscono finanziando le uscite discografiche. Quasi duecento giorni di sessioni in studio e negli esiti si nota tutto in quello che da subito dà l’impressione di essere il lavoro più suonato di Blixa e soci.

Fin dal primo atto, “Die Wellen”, con quel piano drammatico che spinge in un crescendo degno del vecchio compagno – di avventure e dei Bad Seeds – Nick Cave, l’inquietante voce di Bargeld fino alla struggente incursione di violini e percussioni che si spengono in maniera bruciante. E c’è ancora tanto dell’esperienza nei Bad Seeds nella ballad dai toni noir “Nagorny Karabach” e nel finale epico della decadente “Susej” che si distingue però per un gelido arrangiamento elettronico che fa da ponte tra passato e futuro. Archi e orchestrazioni da camera si insinuano in un crudo tappeto di blip e beat. L’imprevedibilità compositiva è una certezza, se non un segno distintivo degli Einstürzende Neubauten, tuttavia non ci sono stravolgimenti evidenti, se si fa eccezione per l’inconsueto momento dylaniano – a modo loro, tra gli accordi stoppati di Alexander Hacke e un singhiozzante organetto di sfondo – di una “Ich hatte ein Wort” in cui Blixa quasi si diverte (parola grossa per uno come lui) nel misurarsi con linee vocali scanzonate e convenzionali. Perché il teatro decadente degli Einstürzende Neubauten non rinuncia facilmente a inebrianti discese negli inferi. Dal desolante scenario tantrico della tribale “Weil weil weil” in cui N.U. Unruh può sfoggiare il suo invidiabile campionario di percussioni e diavolerie fino a “Let’s Do It A Dada”, in cui Blixa assume le più congeniali vesti di delirante sciamano metropolitano con quel timbro cupo e penetrante che si schianta in frastornanti tripudi di ferraglia e campionamenti di vario genere. Con un inizio bruciante che dimostra ancora una volta quanto siano stati fondamentali per decine di band industrial, dai Ministry ai Nine Inch Nails, come dimostra la scheletrica struttura della titletrack, pur con toni più pacati.

Si inseriscono invece in quel filone di conturbante minimalismo caro ad album più recenti (“Ende Neu”, “Silence Is Sexy”) “Von Wegen” e “Unvoll Ständigkeit”, in cui la voce sommessa e tenebrosa è centrale nel suo incedere verso i cambi d’atmosfera finali. Molto graduali nelle virate orchestrali e cinematografiche della prima, molto più fulminanti nella seconda, una lunga e dolente cavalcata verso il nulla che implode in una tempesta rumorista che fa gelare il sangue. Nonostante la conclusiva “Ich warte” lasci intravedere imprevedibili suggestioni dark-folk alla Current 93, “Alles Wieder Offen” non smentisce la volontà dei nuovi edifici che crollano di continuare a seguire il proprio coerente percorso di assimilazione del rumore in formule più armoniche, sempre più lontane dalle pulsioni anarchiche e viscerali degli albori. E se ancora il compimento dell’ossimoro estremo, quello di assimilare definitivamente il rumore nei silenzi – come anticipava il precedente “Perpetuum Mobile” – e nei piani, non è stato raggiunto, ormai poco ci manca.

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