Primavera Sound 2007 (Barcellona) (31 maggio – 2 giugno 2007)

A Barcellona fanno le cose in grande. Del resto, la Spagna è un paese più civile dell’Italia e se in una delle loro città principali fanno quattro tra i più importanti festival musicali europei, un motivo ci sarà. Il Primavera Sound è una specie d’istituzione. Inaugura la stagione estiva dei festival con un cartellone ogni anno di primissimo livello e si svolge in un luogo (il Parc del Forum sul mare di Barcellona) che attrae con facilità migliaia di spettatori da tutta Europa. Il programma dell’edizione 2007 è più che mai ricco e variegato, accomunando alcuni tra i nomi di punta dell’indie-rock ad altri del cosiddetto post-metal, oltre ad una buona selezione di musica folk e un’ampia gamma di dj e progetti elettronici che, complice la mancanza di vincoli tipo “spegnete tutto a mezzanotte che domani la gente va a lavorare”, tiene sveglio l’intero quartiere fino alle prime luci dell’alba.

Ad inaugurare il principale dei tre palchi (Estrella Damm) arrivano gli Herman Dune. Abbastanza impalpabili. Ben altro rispetto ai Dirty Three. Il trio australiano, capitanato dal sodale di Nick Cave Warren Ellis, è il primo dei tanti gruppi coinvolti nel progetto dell’ATP che chiama le band a suonare il proprio album più famoso. Il set della band consiste quindi nel solo “Ocean Songs”, disco interamente strumentale diviso tra post-rock, folk e prog “vecchia maniera”. Abbastanza intenso. Nonostante gli atteggiamenti da guru al limite del cialtrone del violinista Ellis. Per sentire un po’ di “chitarre” bisogna attendere l’arrivo dei Melvins, impegnati come da programma nel live di “Houdini”. Tra metal, proto-grunge e psichedelia, King Buzzo e soci calcano la mano per quello che sarà uno degli apici rock’n’roll del festival. Niente a che vedere con il manierismo fuori tempo massimo degli Slint (già visti una volta, incapaci di gestire i tempi della musica live nonostante “Spiderland” duri solo una quarantina scarsa di minuti) e da quella parodia di sé stesso di nome Billy Corgan. Capisco la voglia di battere cassa e di tornare agli antichi fasti con la sigla che lo ha fatto diventare qualcuno, ma gli Smashing Pumpkins, oggi, non hanno motivo di esistere. Sia perché, dei membri storici, gli unici rimasti sono il frontman e il batterista Jimmy Chamberlin. Sia perché la differenza tra i brani di “Zeitgeist” e gli evergreen richiesti a gran voce dal pubblico è qualitativamente abissale. Aggiungete poi una presenza scenica incerta (sono tutti vestiti come dei pagliacci manco fossero i Queen) e un suono impastato che verte più su un rock di grana grossa abbastanza dozzinale… Tutto l’opposto dei White Stripes, chiamati a salvare il baraccone con un set di puro rock’n’roll. Minimale ma non per questo meno intenso, Jack White e Meg anticipano alcuni brani dal nuovo, meraviglioso, “Icky Thump” oltre a spaziare per tutto il loro repertorio mescolando tra di loro i brani e lasciando la sventurata “Seven Nation Army” in chiusura, con alcuni cori “italiani” annessi, chiaramente.

Il secondo giorno inizia con le rifrazioni psichedeliche dei Brightblack Morning Light. Non male ma decisamente inappropriati ad un contesto così “aperto”. Billy Bragg inaugura i concerti all’Auditori, un enorme auditorium dall’acustica perfetta in cui suonano concerti per lo più acustici e/o cantautoriali. Il suo è uno show solo voce & chitarra che recupera tutto il suo sterminato repertorio tra aneddoti e battute. Forse un po’ pesante per un novizio, certamente più intrigato dalle schitarrate seventies dei Black Mountain. La risposta a chi dice che l’hard rock è affare da vecchi capelloni rincoglioniti. I Blonde Redhead, invece, sono come te li aspetti. Perfetti, impeccabili, snob. Fanno quasi tutto “23” e pescano dal passato recente di “Melody of Certain Damaged Lemons” e “Misery Is A Butterfly” per un concerto primo di emozioni “vere”, ma che comunque consegna il trio newyorchese in tutta la sua classe. Dopo di loro arriva quello che è forse il momento più alto del festival. Gli Spiritualized. Lasciate da parte le dispersioni acido-distorte dei dischi, Jason Pierce si lascia andare in un set acustico con tanto di sezione d’archi e coro gospel. Una cosa cui non daresti due lire e che invece ti lascia stregato: magia pura. Chi l’avrebbe mai detto che il repertorio degli Spiritualized – senza dimenticare i ripescaggi dagli Spacemen 3 – potessero rendere così tanto in questa veste? Da lacrime. Chiaro che dopo un concerto del genere non ti va di buttarti nella calca per i Modest Mouse (tra l’altro, come mai l’altrove impeccabile organizzazione ha deciso di mettere un gruppo del genere nel palco più piccolo?). Anche se da lontano il loro set appare compatto e trascinante con un Johnny Marr mai così pimpante alla chitarra. Niente a che vedere con i soporiferi Low. Rallentano ulteriormente le canzoni – che già non sono queste schegge di rock’n’roll – e molte persone sulle gradinate ne hanno approfittato per farsi un sonnellino. Ai Built To Spill l’onere di chiudere la seconda serata. Ma la band, complice qualche problema tecnico, non riesce a dare il massimo e, nonostante la botta delle chitarre elettriche, c’è un mood generale che ha impedito un coinvolgimento tale a quello che arriva ogni volta che si ascoltano i dischi. Da rivedere in condizioni più umane. Magari anche il fatto di aver attaccato alle 3.30 del mattino ha fatto.

Ultimo giorno aperto da Shannon Wright. Set in solitaria che si divide tra pianoforte e chitarra elettrica. Decisamente affascinante, complice anche il livello medio altissimo del suo repertorio. Ted Leo and the Pharmacists, invece, ricordano a tutti che esistono le chitarre elettriche, l’attitudine punk e il power-pop. Un concerto straordinario, tirato, distorto e sudato. Tutto quello che ti aspetti da un artista Touch & Go, tranne le melodie e la simpatia. Assolutamente imprescindibile così come i suoi dischi. All’Auditori, invece, è tempo di reducismo con Robyn Hitchcock and the Venus 3, con Peter Buck dei R.E.M. alla chitarra. Negli anni ’80, Hitchcock era un alfiere della neo-psichedelia prima coi Soft Boys, poi in solitaria. La sua carriera continua ancora adesso ed è dall’ultimo “Olè Tarantula” che si prende lo spunto per iniziare un concerto sì da vecchi bacucchi, ma cone le melodie giuste. Un po’ Byrds, un po’ Syd Barrett. Di culto sempre e comunque. Non come Patti Smith che riempie l’arena nonostante un set mosciarello o i The Good The Bad and the Queen, che forse soffrono i grandi spazi e fanno disperdere il loro suono così trasversale. Le chitarre tornano però prepotentemente con i Sonic Youth. Il loro concerto, incentrato sul capolavoro dell’88 “Daydream Nation”, è una fucilata noise che non ti aspetti. Volumi altissimi e feedback assordati. Una band che ha ritrovato la felicità di suonare dal vivo dopo alcune performance non all’altazza della fama e della carriera. Da segnalare un bis lunghissimo con la complicità di Mark Ibold, ex bassista dei Pavement qui chiamato a dare una mano ai newyorchesi. Assoluti fuoriclasse. Così come fuoriclasse sono i Wilco, il cui concerto chiude il festival. Da una band capace di inanellare album come “Yankee Hotel Foxtrot”, “A Ghost Is Born” e “Sky Blue Sky” ti senti in dovere di chiedere la luna. E loro non solo te la danno, ma te la impacchettano per bene. Un concerto semplicemente magnifico. Perfetto in tutte le sue sfaccettature. Scaletta, esecuzione, passione ed energia. Se la musica americana del nuovo millennio deve avere un nome e un volto, avrebbe le fattezze di Jeff Tweedy. E il suo è un buon ricordo per quello che, come ogni anno, si dimostra un appuntamento immancabile per ogni music fan. Sono cose che ti fanno star bene, prima di tornare a casa e renderti conto che sì, a Torino avremo pure i concerti gratis, ma non è esattamente la stessa cosa. Eh no.