PIGEON DETECTIVES, Wait For Me (Dance To The Radio, 2007)

Se andaste in giro per il Regno Unito ad informare gli astanti di qualche concerto o gli occasionali clienti di qualche negozio di dischi che il rock è morto da un pezzo e che di conseguenza stanno perdendo il loro tempo, probabilmente quelli vi risponderebbero che siete soltanto dei poveri pazzi totalmente fuori di senno. Eh sì, perché in Inghilterra il rock nasce ogni settimana e ogni settimana ha un nome diverso. Basta infatti acquistare l’ultima variopinta copia dell’NME per scoprire chi sarà il prossimo protagonista della sempiterna favola chiamata “Next Big Thing”: una favola attorno alla quale l’industria discografica britannica ha saputo edificare nel tempo un florido e inespugnabile mercato, in grado di incidere significativamente sul PIL nazionale annuo. Una favola che molto probabilmente non finirà mai (sebbene tutti sappiano esattamente come andrà a finire) e che racconta la solita vecchia storia di una chitarra piovuta dal cielo come un frammento incandescente di kriptonite, che ha donato a quattro annoiati e bellocci ragazzotti di provincia inauditi superpoteri in grado di portarli direttamente in cima alle classifiche di vendita del paese, tra una Nelly Furtado e una Madonna.

Non bisogna dunque stupirsi troppo del fatto che la gente tenda potenzialmente a non stancarsi mai di gruppi come i Pigeon Detectives e della loro in fondo trita e prevedibile musica smaccatamente britannica e irriducibilmente facile e derivativa: se oggi ce l’hanno fatta loro, domani potrebbe toccare a te. E’ questa la favola illustrata che prende corpo ogni settimana dalle pagine gualcite dell’NME. Questo gruppo, che viene da Leeds ed è già forte della benedizione preventiva degli illustri compaesani Kaiser Chiefs che hanno pensato bene di portarselo in tour come spalla, si inserisce in tale consolidato scenario sociologico e mediatico e tutto quello che si può azzardare a dire su di esso è che suona esattamente come ve lo aspettereste. Le canzoni sventagliano in controluce una ben riconoscibile costellazione di riferimenti che da un insistente borbottio beatlesiano di fondo si allarga poi in direzione di Kinks, Small Faces, Who, Rolling Stones, Jam, Damned, Stone Roses, Charlatans, fino a giungere ai più prossimi lidi di Oasis, Blur, Supergrass o, avvicinandosi ulteriormente ai giorni nostri, Artic Monkeys, Ordinary Boys e i già citati Kaiser Chiefs. Frammenti disordinati di storia musicale inglese che galleggiano nella solita rudimentale minestrina riscaldata, il più delle volte affogati in melodie entusiastiche e bercianti che quasi sempre qualcun altro ha assaggiato prima che arrivassero al nostro tavolo.

Sin dal dittico iniziale “Romantic Type”, ”I Find out” si intuisce come il gruppo disponga fondamentalmente di una sola idea, che è poi l’idea centrale del pop e anche il suo inconfessabile segreto (che tutti però sanno), ovvero la formula magica: strofa, strofa, ponte, ritornello e, se serve, assolo occasionale di chitarra. Su questo fin troppo risaputo canovaccio il gruppo cerca di speculare tutto lo speculabile, agghindando le canzoni con soluzioni melodiche il più possibile affilate e con fluidificanti innesti di chitarra che vorrebbero rendere la proposta ancora più dinamica e accattivante. Di tanto in tanto la strategia paga e si regala qualche modesta soddisfazione: è il caso soprattutto del singolo “I’m not sorry”, potente e fragorosa macchina ritmica sulla quale i Detectives hanno giustamente fatto leva per scardinare gli ultimi residui di blando anonimato e dischiudersi le porte della definitiva affermazione commerciale.

A proposito di questo album si è parlato di una collezione di potenziali e infallibili singoli incredibilmente radiofonici. In realtà questo sembra vero solo per quanto riguarda le prime sei canzoni del cosiddetto lato A (ricorrendo ad un gergo di cui su queste stesse pagine si lamentava la progressiva e inesorabile estinzione…), le quali, se adeguatamente contestualizzate all’interno dell’ambiente che più le si confà, ovvero un affollato e sciamante concerto, promettono di liberare tutta la propria dirompente energia, anche e soprattutto grazie ad un buon basso che svolge imperterrito il suo lavoro di interdizione e copertura sistematica degli spazi e a due chitarre dotate di una buona fantasia e puntualissima agilità. Nel lato B invece il gruppo cincischia e si specchia troppo nella luce opaca delle proprie unghie lucidate, rifugiandosi all’ombra di enunciati elementari per evitare di essere inghiottito da una divorante e inarrestabile tendenza a scivolare nell’autocitazione. In alcuni episodi affiora una lampante mancanza di lucidità e una certa fastidiosa inettitudine che porta il gruppo a sbarellare indeciso tra strutture melodiche incompiute e contrastanti senza venire a capo di nulla, accumulando anzi confusi giri di chitarra e ritornelli del tutto inefficaci (come ad esempio accade in “Stop Or Go” o in “You Better Not Look My Way”).

In definitiva ci troviamo di fronte al tipico disco che tutti i maniacali e ossessivi fondamentalisti del brit rock (come il sottoscritto) finiranno con l’ascoltare più del dovuto, tra una partita a scacchi con i The Good The Bad And The Queen e qualche flessione nell’immensa palestra mentale degli ultimi Maximo Park. Tutti gli altri possono tranquillamente sentirsi esonerati.

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