GRAHAM COXON, Love Travels At Illegal Speed (Emi/Parlophone, 2006)

Non so perché ma la storia Coxon/Blur mi sembra meglio di una telenovela argentina modello “Anche I Ricchi Piangono”, con Damon Albarn nel ruolo che fu di Veronica Castro, quello da primadonna: sempre pronto a fare e a disfare a piacimento. E’ notizia di questi giorni che il biondo ex ragazzino avrebbe dichiarato che gli piacerebbe fare qualcosa ancora con Graham, tipo un ultimo concerto insieme o qualcosa del genere. Volemossebbene. Nel frattempo Coxon smentiva con un certo distacco, affermando tranquillamente che “i Blur sono stati una cosa un po’ da ragazzi, ora io ho progredito” [loro no, n.d.a.]. Scaramucce tipo “il pallone è mio”… “dai torna a giocare con noi che ci manca il portiere!”.

Ma lasciamo stare il gossip e, per recensire “Love Travels At Illegal Speeds”, partiamo dall’affermazione di Coxon: musica più adulta la sua? No di certo, si direbbe proprio il contrario. “Love Travels…” sembra un album postumo dei Sex Pistols dopo una cura indie e non c’è nulla di adulto nei Sex Pistols. Intendiamoci subito: “Love Travels…” è un gran album, è semplicemente che fa sorridere il fatto che sia sempre rispettata la regola per cui un artista non sa minimamente giudicare la propria opera con obiettività. Pensare anche che Coxon aveva dichiarato, prima dell’uscita dell’album, che “Love Travels…” sarebbe stato “più dark”: guarda caso invece era da un po’ di tempo che non sentivo un album così solare.

Musica da starter, due chitarre e pogo a volontà. Come non scatenarlo in “I Don’t Wanna Go Out” o “Gimme Some Love”? Quest’ultima poi la si potrebbe definire una “Anarchy In The U.K.” del 2000, con tanto di cantato nasale strascicato alla Johnny Rotten. Difficile immaginare una seconda adolescenza così naturale per un Coxon papà, deve avere carte nascoste che una generazione di trentenni gli invidiano. Il risultato non è proprio punk, è – per così dire – punk oriented, l’attitudine musicale che sembra emergere dal (sub)conscio di Coxon più di altre. Non mancano alcune ballads acustiche (“Flights To The Sea (Lovely Rain)”, “Don’t Believe Anything I Say”, “See A Better Day”) e lì in effetti qualcosa del passato riaffiora: a ben vedere non era Coxon la colonna portante dei Blur? Visto a posteriori si può rispondere di no, però era molto, quindi è naturale che anche il fantasmino di ciò che fu riappaia un po’ per farsi un giretto nel nostro background degli Anni Novanta.

Quello che è certo, comunque, è che Coxon adesso si diverte un sacco. Lo si sente, lo si avverte. Tutto l’album lo conferma, ma in particolare “You Always Let Me Down”: breakbeat rock-blues alla Arctic Monkeys con un organetto sixties in più. Spettacolo.
Più che ad un concerto in un locale vogliamo vedere Coxon che suona ad un party in una casa con ubriachi dappertutto. Ci si divertirebbe un sacco.

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