BORIS, Pink (Diwphalanx, 2006)

I Boris del 2006 sono l’oscenità e il furore mescolati a un candore che non gli è mai possibile raggiungere ma che perseguono con una cocciutaggine davanti alla quale è impossibile non arrendersi e inchinarsi: tutte queste fratture sono racchiuse nel maiuscolo incipit che sbaraglia il campo, visto che “Parting” è un oceano di rumore e feedback sezionato da una batteria totalmente free e attraversato dal languore ectoplasmatico della voce di Takeshi, che si muove fluida tra le parti musicali.

E questo è solo l’inizio! Il terzetto nipponico, lontano dalla struttura che caratterizzava il capolavoro “Absolutego” – ma sono anche passati dieci buoni anni da allora, sarebbe il caso di notarlo -, si lancia in una guerra sfrenata che mescola acidità pseudo-psichedeliche, progressioni in odore di metal, sbandate noise, sporcizie garage e chi più ne ha più ne metta. Insomma, un bombardamento sonoro che in alcuni casi (leggasi “The Woman On the Screen”) non si vergogna minimamente di lavorare una materia grezza ed eccessiva, a pochissimi passi dal kitsch, e addirittura di superarne le estremità, spingendo il pedale laddove sarebbe francamente inimmaginabile ipotizzare di poter arrivare.

Tutto questo senza mai dimenticarsi, e non è cosa da sottovalutare, lo studio della forma canzone: e sì che dai Boris sarebbe lecito aspettarsi di tutto, viste le frequentazioni anche recenti della band, come l’album con Merzbow – di cui si parlerà presto su queste pagine -: e invece i riffs sono tagliati con l’accetta, e anche l’abuso di rumore (che rende, diciamolo, tutto l’album molto più eccitante e trascinante) non è mai gratuito o fine a se stesso anzi, quando la chitarra compare, unico rimasuglio di apparente umanità, dietro il muro di suono sgretolato e farraginoso di “Blackout” l’animo viene come stritolato in una tenaglia infernale, e la voce smozzica parole incomprensibili, alla ricerca di una quiete che appare sempre più come una chimera. “Painted with Flame” è un ritrovo di hippy zombi, e perfino gli handclap possono essere scambiati per i rintocchi di una marcia funebre, mentre la pausa di riflessione di “My Machine” non fa altro che anticipare il gran finale. “When We’re Gone” è semplicemente la summa riassuntiva di tutto ciò che si è ascoltato nelle dieci tracce precedenti, un gigante che pone la firma in calce su un nuovo esaltante capitolo del trio composto da Wata, Takeshi e Atsuo.

Lo zenith e il nadir non sono mai stati così vicini…

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