BEN LEE, Awake Is The New Sleep (New West, 2005)

Descritto ovunque come l’enfant prodige di una certa musica underground degli anni 90, indiscutibile la sua precocità: ventisei anni di cui dodici passati a scrivere canzoni e registare in studio. Un anno fa usciva l’ultimo lavoro di Ben Lee, “Awake is the New Sleep”. Per chi non conoscesse il buffo australiano, sappia che la sua musica gravita tra un indie pop fatto tanto di chitarra quanto di tastiera e una vena cantautoriale degna dell’ex Lemonheads Evan Dando, per il quale il signor Lee ha scritto due tra le migliori canzoni del suo esordio solista “Baby I’m bored”.

Diciamolo subito: “Awake is the new sleep” è un disco bellissimo. È un disco pop di una immediatezza disarmante, questo è vero; ma qui la semplicità compositiva non è sinonimo di banalità: è il veicolo grazie al quale l’autore riesce ad arrivare al punto senza tergiversare, è un treno colorato ricco di pensieri e emozioni che non scade mai nella retorica o nel sentimentalismo.

Il messaggio è forte già in apertura: il soffuso ripetersi di “Whatever it is”, come una ninna nanna del buon risveglio, vuole che le circostanze non si impossessino della nostre vita; la cadenza quasi raggae di “Gamble Everything For Love” rafforza la tesi e anticipa la malinconica e autoreferenziale “Begin”, immersa nei campionamenti che come scritto ironicamente nel booklet creano “Enough atmosphere to start a planet”.

”Catch My Disease” è il singolo per eccellenza, una pop song perfetta che oltre a mietere vittime per la sua melodia solare descrive con autoironia cosa comporta appartenere a una scena, chiamatela indie, underground o come vi pare, che rimane lontana dalle radio nazionali e dagli schermi di mtv: “I hear Beyonce on the radio, and that’s the way i like it; they don’t play me on the radio, but that’s the way i like it”. “Into the Dark” e “Close I’ve Come” con le loro melodie accattivanti mantengono quella contagiosa allegria mentre le ballate atmosferiche “Apple Candy” e “Ache for You” e la dolce “No Right Angles” surriscaldano il tutto. Dell’esordio di un esuberante quattordicenne è rimasta la grinta e le melodie catchy, ed è un piacere sentire che gli arrangiamenti quasi kitsch degli ultimi album trovano qui una forma più rotonda e meno invadente.

L’unica eccezione di un disco fatto di strofe e ritornelli è la lunga “Light”, quasi dieci minuti comprensivi di una coda strumentale (sassofono protagonista) che sembra totalmente improvvisata. Approvato anche il coraggioso episodio sperimentale, resta il ricordo di una crescente “We’re All in This Togheter”, e l’immagine di un piccolo grande uomo che guarda al mondo sorridendo con la matura consapevolezza che “On the subway we feel like strangers but we’re all in this together…”

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