QUEENS OF THE STONE AGE, Lullabies To Paralyze (Interscope, 2005)

Doppiare la botta di “Songs For The Deaf” non era cosa facile. E infatti Joshua non c’è riuscito. Inevitabilmente l’impatto mediatico di un disco senza l’ospite conosciuto dalle masse (Dave Grohl), con un Lanegan a mezzo servizio e senza un personaggio controverso come Oliveri, è minore rispetto al precedente. Ma le aspettative, con una discografia simile, rimangono alte.

Tornando all’idea base del capolavoro “Rated R” e delle varie Desert Sessions, ci troviamo fra le mani un disco decisamente eterogeneo dove si cerca di dare spazio ad ogni spunto. Dove ogni buco è riempito con sovraincisioni di qualunque tipo. Scoprendo un modus operandi molto più raffinato, rispetto al grezzo passato, ad opera del polistrumentista perennemente incravattato Troy Van Leuween. Così c’è di tutto. Dalla cullante apertura da brividi di “This Lullaby” alla successiva botta punk rock dei due minuti scarsi di “Medication”. Dagli ormai tipici staccati di “Tangled Up In Plaid” all’inedita melodia traboccante di miele di “I Never Came”. Joshua è padrone assoluto della situazione. Nel bene e nel male.

Se l’ispirazione raggiunge lo stato di grazia in “Someone’s In The Wolf” (psichedelia, stoner, delirio, slide guitar e Chris Goss che impreca affettando cipolle), in “The Blood Is Love” si contano i secondi che mancano alla fine di quel riff che sarebbe veramente fico.. se non durasse il tempo che dura. Così “Broken Box” non è altro che un divertissment alla Eagles Of Death Metal mentre “Burn The Witch”, con la barba di Billy Gibbons come ospite d’onore, blueseggia con labbra sporgenti e braccio fuori dal finestrino.

La scorpacciata di fratelli Grimm fatta ultimamente lascia un inquietante segno piazzando qua e là (anche nel booklet) streghe, lupi, sortilegi, sangue e fuochi fatui. Tutto questo senza però dimenticare lo smodato amore del rosso leader per l’organo riproduttore femminile per il quale le sue liriche hanno sempre trovato degno asilo. In questo caso “Skin On Skin” (che se non fosse, appunto, per il testo ed un whawha più che notevole potrebbe facilmente passare inosservata) basta e avanza per tutto il disco, autoproclamandosi “inno al coito”.

Con una padronanza tecnica ed ecletticità senza discussione i QotSA ci propongono però il loro lavoro meno convincente, ma non deludente, di una carriera già di per sè notevole. Un disco che molto probabilmente pecca in quanto ad anima ed eccede in artigianeria, ma che merita ugualmente un’abbondante e piacevolissima sufficienza.

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