BOYGENIUS, “The Record” (Interscope, 2023)

La prima traccia di “The Record” di Boygenius, il trio composto da Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus, inizia con una domanda cantata all’unisono: “Who would I be without you?”; non si tratta di fantasia o incertezza, ma di un promemoria e forse perno dell’intero album, legato alle relazioni, quelle che ti formano e ti cambiano, come l’amicizia. “La mia vita viene definita dai miei amici” ha recentemente dichiarato Dacus a Weekend Edition e, in fondo, il disco è un una celebrazione di questo sentimento. “Without You Without Them” dura circa un minuto, mentre l’armonia scaturita dalle tre voci raggiunge livelli che tengono le fila delle dodici canzoni, in una raccolta che mostra senza ostentazione il legame che si è creato tra le cantautrici. Parole e suoni catturano l’intero universo delle emozioni umane, filtrandole attraverso una lente per rendere un po’ magico questo mondo banale.

I primi pezzi dell’album sono frutto di un’interpretazione solista e funzionano come eleganti presentazioni degli stili distinti delle componenti del gruppo. Baker introduce la potente e irregolare “$20”, dichiarando come la band sentisse l’esigenza di una maggiore presenza di “sick riffs” e di testi ostili: “It’s a bad idea and I’m all about it…When you wake up, I’ll be gone again”, e quando Bridgers e Dacus si uniscono, un muro di emozioni e suoni delicati sembra abbracciare l’opera di Baker. “Emily I’m Sorry” presenta una Bridgers ansiosa di essere scusata che intona una canzone d’amore malinconica, trasformata dallo strimpellare acustico che la accompagna per tutta la durata del brano: “I’m twenty seven and I don’t know who I am, but I know what I want”; infine il grunge di Dacus con “True Blue” viene trasformato in un’ode all’amore incondizionato: “But it feels good to be known so well, I can’t hide from you like I hide from myself”, parole avvolte da una melodia pesante che aleggia tra i grattacieli di Chicago.

Il trio parla di vulnerabilità e di sentimenti in generale con estrema onestà, in “Revolution 0” Bridgers tra archi e cori chiede: “I just wanna know who broke your nose, figure out where they live, so I can kick their teeth in”, mentre in “Letter To an Old Poet” con tono di sfida avverte: “You think you’re a good person, because you won’t punch me in the stomach”. Questa contrapposizione tra immagini dure, vocalizzate con cadenza narcotica, sono indicative di un album che spesso si sposta tra toni sommessi e rumore incisivo.

Ciò che conferisce a Boygenius l’elemento caratterizzante che pochi altri gruppi vantano è quanto inconsapevolmente il trio descriva l’appartenersi vicendevolmente senza mai ostentarlo. Quando si armonizzano in “Leonard Cohen” esclamando: “I never thought you’d happen to me”, il soggetto sono loro stesse, mentre con sarcastico umorismo descrivono l’autoreferenzialità delle metafore del Leonard cantautore. La traccia si svolge senza un ritornello e nessuna delle tre l’avrebbe probabilmente scritta così com’è senza la presenza delle altre. Nonostante ciò il loro suono è più sicuro che mai, disposte ad avventurarsi al di fuori delle rispettive comfort zone, mettono la loro unità al primo posto senza rinnegare le esperienze personali condivise nei testi e nella musica. Nella potente “Not Strong Enough”, il trio si unisce con perfetta precisione, trovando l’equilibrio tra intensità lirica e attuazione di un desiderio di lunga data, quello di rendere omaggio a Sheryl Crow. È un momento partecipativo brillante, che si basa su una solida ammirazione per ogni aspetto del loro essere. Mentre il tempo che passa ci plasma facendoci diventare le nuove versioni di noi stessi, condividiamo la strada con gli amici pronti ad accompagnarci nell’ignoto, prendendo parte alle nostre trasformazioni. Quando ci apriamo agli altri, è un po’ come se cantassimo la strofa di qualcun altro finché non siamo pronti a cantare la nostra: il disco delle Boygenius ce lo dimostra magistralmente: “If you rewrite your life, may I still play a part?” [“We’re In Love”]

76/100