ARAB STRAP, The Last Romance (Chemikal Underground / Audioglobe, 2005)

“Brucia queste lenzuola in cui abbiamo appena scopato”. E, poco, più in là, “La mia uscita non avrebbe potuto essere più rapida, ma la mia scusa avrebbe potuto essere più furba. Ora sii educato e leccala, credo sia il momento per tutti e due di rivestirsi”. Aidan Moffat sarà anche stanco di essere chiamato “il Bukowski di Falkirk”, ma parole come quelle che iniziano l’album non lo aiutano di certo a scrollarsi di dosso l’immagine. E quindi, fin da subito, sei pronto ad ascoltare un uomo lagnarsi della propria vita sentimentale disastrosa, come se la tua non lo fosse già abbastanza; ma poi drizzi le orecchie, senti l’urgenza delle chitarre, il ritmo nervoso, la chiusura secca, e pensi che forse qualcosa è cambiato.

“The last romance” potrebbe essere sintetizzato così: i suoni sono più coerenti tra loro, Moffat ha imparato a cantare senza biascicare ogni parola, e gli Arab Strap guardano alla new wave come mai in passato.
Ma sarebbe stupido liquidare così un disco come questo: il bello degli Arab Strap, quello che li rende superiori a molti altri è il poter leggere i loro dischi come fossero libri, scritti con un autobiografismo talmente crudo da imbarazzarti quasi.
E allora, ogni canzone di “The last romance” è una pagina di un racconto.
Una relazione sul punto di crollare (“Stink”).
La storia che si frantuma (“No hope for us”, ritmata e adatta al ballo solitario e introverso di ragazzi tristi in un club buio).
Una telefonata imprevista durante una sbronza, e una frase che cambia la prospettiva delle cose (“Chat in Amsterdam, winter 2003”: la tastiera sbilenca come i passi dell’uomo e le distorsioni simili a una connessione telefonica).
L’incontro con una persona nuova, e la timidezza nel rifiutarsi di ballare (“Don’t ask me to dance”).

Fare l’amore con lei per la prima volta, rimanere affascinati dalla sincerità di questa ragazza (il dialogo tra il maschile della voce e il femminile del violoncello in “Confessions of a big brother”).
Il primo pomeriggio a casa di lei, quasi in imbarazzo a studiarsi nella cucina (“Come round and love me”). L’incredulità su ciò che accade (“La monogamia non ha mai funzionato, ma forse il nostro legame è speciale”, canta Aidan nella concitazione di “Speed-date”).
Il guardarla dormire, e il chiedersi perché lei abbia scelto te (“Dream sequence” e il suo pianoforte di velluto). L’arrendersi alla felicità che è arrivata (“Fine tuning”, totalmente acustica e limpida).
E poi farsi travolgere dalla felicità, essere stupidi e contagiosi, sui fiati infinitamente gioiosi di “There is no ending”.
Forse il tempo della paura di amare (“Philophobia”, ricordate?) è finito.

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