SEBASTIEN SCHULLER, Happiness (Catalogue Records / Audioglobe, 2005)

Album d’esordio per questo percussionista di formazione che nel tempo si è talmente avvicinato all’elettronica da farne mezzo espressivo. Nativo de Les Yvelines, dipartimento dell’Ile de France che sfoggia Versailles come fiore all’occhiello, Sébastien orbita fatalmente nel megacosmo parigino, a portata di treno regionale. “Happiness” è frutto di un lavoro quasi triennale, co-prodotto insieme a Paul Hanford (Brothers In Sound). La fatidica lontananza temporale fra un pezzo ed un altro non viene però percepita, le canzoni sono tutte egualmente cesellate da mani esperte e da una certa visione di principio.

I sintetizzatori analogici hanno la parte del leone, convogliando l’opera lungo la ferrovia RadioRedheadAir: binari che non conducono esattamente verso un “Happiness” e infatti si capirà che il nostro artista ha voluto fare il simpatico, licenziando un disco tendenzialmente freddo e malinconico. E’ anche vero che la sublime malinconia contiene aliti di felicità, ma qui il discorso passa ai filosofi.
“1978” è in effetti un’ouverture piena di spleen, uno strumentale dove il pianoforte fa la parte del leone, disturbata cammin facendo da minimali distorsioni elettroniche, in un clima che rimanda immediatamente ai Radiohead post “O.K. Computer”. “Weeping willow” rivela il timbro vocale di Schuller, sottile e sofferto, uno Yorke che canta controvento.

La malinconia la fa già da padrona (happiness!) e si passa dalla discreta e ariosa melodia di “Sleeping song” alla lo-fi sinceramente anemica di “Wolf”. Per fortuna tira aria di riscatto nella seguente “Ride along the cliff”, validissimo esempio di elettronica che guarda alla sophiscated plastic dei primi Human League, accompagnata da un’autoctona vena ironica e surreale che ne fa il pezzo più graffiante e originale dell’album. La parte centrale del lavoro viene nobilitata dall’orecchiabile “Donkey boy”, dal grande impatto iniziale grazie a un ben orchestrato riff di basso. Il resto è francamente déjà vu, niente di inascoltabile, per carità: purtroppo, dimenticabile. Tra loop sparsi qua e là, carillon e melodie surgelate si giunge a “Le dernier jour”, unica canzone nella lingua di Schuller che non fa che ripetere gli stessi schemi delle sorelle anglofobe. Si passa ad altro senza patemi, serbando la sensazione di un’opera che avrebbe voluto emozionare e toccare l’ascoltatore, senza riuscirci.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *