13 & GOD, “13 & God” (Alien Transistor / Wide, 2005)

Se il 2004 per l’indietronica era stato l’anno della scoperta delle chitarre, guardando bene si potevano vedere segnali premonitori dell’incontro tra il glitch pop e dell’hip-hop meno allineato: i remix di Boom Bip per i Lali Puna, o il tour di questi assieme ad Alias davano indicazioni precise sulle future evoluzioni di uno dei generi più interessanti degli ultimi anni.

Arrivato il 2005, due dischi hanno concretizzato questa tendenza: il ritorno di Four Tet e, soprattutto, la collaborazione tra i maestri tedeschi Notwist e i Themselves, affiliati ai cLOUDDEAD e all’etichetta Anticon; come in una Desert Session realmente alternativa, i due gruppi si incontrano in Baviera senza alcun materiale preparato, ed escono dallo studio tre settimane dopo con un disco e un progetto a nome 13 & God. Va detto subito, il risultato non è all’altezza delle aspettative; invece di canzoni, ascoltiamo un flusso di note e ritmiche frastagliate in dieci movimenti, dove la fusione tra le due band avviene solo a livello teorico e quasi mai sul piano strettamente musicale: sembra quasi che i Notwist si siano curati del lato A dell’album, i Themselves ne abbiano composto la parte centrale e che solo nell’ultima parte abbiano provato a lavorare assieme.

Il risultato sminuisce l’enorme valore di entrambe le band, che in così poco tempo sembrano incapaci di creare qualcosa da comunicare all’ascoltatore: le voci si amalgamano male (i controcanti di Doseone sono spesso identici tra loro, quando non fastidiosi), e le canzoni restano in piedi solo grazie all’attenzione maniacale per le ritmiche (dure e quasi industriali in “Tin strong”, costruite attraverso il pizzicato d’archi in “Soft atlas”, reali miste a digitali in “Ghostwork”). Solo in poche occasioni il progetto 13 & God si dimostra all’altezza: se “Men of station” non è altro che la coda di “Consequence” (la canzone che chiudeva il capolavoro “Neon Golden”), “Perfect speed” vive di onde sonore, di un tappeto ritmico che appare e scompare, di ronzii e ritmiche squadrate, di disturbi digitali e malinconie e riesce così a fondere pienamente le due band, come accade anche nella lunga “Superman on ice”, più marcatamente hip-hop.

I rumori ambientali stratificati e i glitches sottili di “Walk” chiudono un disco che lascia l’amaro in bocca: una volta esaurita la curiosità per l’incontro tra due mondi lontani, resta solo un progetto estemporaneo, una raccolta di esperimenti interessanti solo a livello teorico. Non è il seguito a “Neon golden”, per fortuna: lì c’erano canzoni con un cuore, mentre questo è solo un gioco realizzato in fretta.

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