ED HARCOURT, Strangers (Heavenly, 2004)

Ovvero, come essere costretti a risvegliarsi da un piacevole sogno. Giunto alla terza opera sulla lunga distanza (la quarta se si considera lo splendido EP d’esordio “Maplewood”) Ed Harcourt non è oramai più una sorpresa per nessuno. E il problema è forse solo tutto qui: le dodici canzoni presenti in “Strangers” sono tutto quanto uno si può aspettare da questo ragazzetto inglese. Per essere ulteriormente più chiari chiunque abbia ascoltato i primi lavori di Harcourt potrebbe tranquillamente canticchiare una qualsiasi dei brani qui presenti al primo ascolto, senza sbagliare attacchi o rimanere anche solo per un istante stupito da ciò che sta ascoltando.

Che il difetto principale del giovane cantautore risiedesse nella ripetitività della sua vena compositiva era già apparso palese all’ascolto del precedente “From Every Sphere”, ma adesso il cerchio è definitivamente chiuso. Della struttura dei suoi brani Harcourt ha solo esasperato l’aspetto più prettamente pop, eliminando del tutto i tempi spezzati e i buchi neri che rendevano profonde e intricate le trame di “Here Be Monsters”. Insomma, sembra di assistere alla trasformazione di un artista da cantautore ad autore di hits radiofoniche. “Born in the 70s” è quanto di più banale e piatto ci si possa aspettare, così come non meno prevedibili suonano “This One’s for You” che relega tutto l’impianto sonoro a un pianoforte invadente e “Loneliness”, in cui vocalizzi femminili si appaiano alla voce di Harcourt.

La situazione migliora leggermente quando Ed si avvicina maggiormente ai confini del rock, come l’iniziale “The Storm is Coming” aperta da rumorismi e feedback, ma neanche qui si può certo gridare al miracolo. L’uso del violino in “Let Love not Weight Me Down” non è disprezzabile, ma purtroppo la strofa è l’apoteosi dell’incapacità di rinnovarsi dell’autore, risultando un vero e proprio plagio del proprio passato. Le atmosfere demodé che tanto avevano colpito nei primi vagiti musicali di Harcourt si fanno timidamente largo nell’incipit della title-track, per essere però subito smentite e sovrastate da un’architettura popular fastidiosa e priva di spunti d’interesse. Insomma, i brani potranno pure risultare piacevoli a un ascolto rapido e privo di troppi interrogativi, ma c’è anche la minima possibilità che “Strangers” possa campare nella mente dell’uditorio per più di un mese?

Dopo “From Every Spere” avevo sospeso il giudizio in attesa di una controprova, positiva o negativa che fosse. Ora che la forma dell’album sembra anche maggiormente pensata e studiata a tavolino non è possibile concedere ulteriori possibilità a Ed Harcourt, che per quasi un anno mi ha fatto sperare di aver trovato un nuovo nome in grado di dare lustro all’arte del cantautorato. Così non era, e quasi certamente così non sarà. Mi dispiace, più per me che per lui, ad essere sincero.

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