LONDON UNDERGROUND, Through A Glass Darkly (Musea Records, 2003)

Band giovane, musicisti smaliziati. Ecco i London Underground, italiani con la passione per il prog. Daniele Caputo (batteria), Stefano Gabbani (basso), Gianni Vergelli (chitarre) e Gianluca Gerlini (tastiere), tutti con una bella esperienza alle spalle, sfornano il loro primo lavoro nel 2000 (“London Underground”).

A distanza di tre anni raddoppiano con un disco che, fin dalle grafiche di copertina, la dice lunga sui loro modelli. Ad una Londra fotografata a volo d’uccello, virata in colori pastello, sono sovrapposte immagini sfumate – volti enigmatici, farfalle. In basso a destra, attraverso un vetro circolare, vediamo una persona che allunga una mano verso di noi in atteggiamento ostile. Tutto molto elegante e colto: la personcina “through the glass” richiama – inconsapevolmente? – il famoso (e tondo) autoritratto allo specchio del Parmigianino; il paesaggio odora di Canterbury (la fotografia rosata del primo album omonimo degli Hatfield & The North, il rosa Caravan…); le evocative raffigurazioni interne ricordano quelle di “A Trick Of The Tail” dei Genesis.

Non crediate però di trovarvi di fronte, anche musicalmente, a puro e semplice citazionismo nostalgico. L’opera è fresca e tiene conto del tempo trascorso: undici tracce di lunghezza standard e di struttura piuttosto semplice, che rileggono il prog classico in base ai parametri del pop, senza snaturarlo. Il risultato è davvero gradevole, a partire da “End Of The Race”, impetuosa entrée d’altri tempi cavalcata dall’organo Hammond. Gli ammiccamenti musicofili – quando presenti – non pesano mai, suonano leggeri. Tracce dei Jethro Tull della terza fase (post “A Passion Play”) – nel riff di “The Days Of Man” -, il ciangottare dei gabbiani e il flauto nella elegante title track – tutto molto Camel -, l’inizio della bella interpretazione di “Can’t Find The Reason” di Vincent Crane – un po’ Hatfield.

È l’aleggiare dello spirito dei maestri, dei numi tutelari, non uno sterile revival privo di slancio creativo. Fra momenti grintosi (la rilettura di “Travelling Lady” di Mann e Hugg, voci distorte e riff di organo e flauto), incedere lento e arioso alla Pink Floyd (“Sermonette”), lirismo epico (“A Beautiful Child”) e intimista (“Through A Glass Darkly”), episodi decisamente hard (“Everything Is Coming To An End”), c’è anche spazio per qualche episodio meno riuscito – “Cryptical Purple Browne Orcharde”, piuttosto monotona e poco ispirata -, che, tuttavia, non turba l’equilibrio complessivo di un album partito di gran carriera e chiuso in modo disteso da “Another Rude Awakening”, nella quale, accanto all’onnipresente Hammond, fa capolino anche un impalpabile mellotron. Tutti i testi delle canzoni originali sono di Daniele Caputo.

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