NADA, Tutto l’amore che mi manca (On the Road Music Factory / Venus, 2004)

Ascoltavo questo disco assieme a mia madre, ieri sera, sul divano di casa. Guardavo la sua espressione. Era pietrificata. Tutto quello che riusciva a dire era un timido “È terribile…”, e non perché mai si sarebbe aspettata di sentire una Nada così visceralmente rock, ma per l’impatto della prima ghost track, “Le mie madri”: una litania free form furiosamente elettrica, teatralità impazzita, grida, sgomento, bisogno disperato d’amore urlato in faccia a chi non vuole ascoltare. Mia madre non è la sola ad essere rimasta sconvolta. Hai un bel da pensare a “Horses” di Patti Smith, ma io ho trovato poche cose in grado di farmi tremare così tanto, in tutti questi anni di ascolti.

Nada non è più la bambina che incantò Sanremo a quindici anni, non è più quella che conobbe Piero Ciampi, non è più l’attrice valorizzata da Strehler, non è più l’icona dimenticata, non è più la donna convertita ai suoni più duri: “Tutto l’amore che mi manca” racchiude tutto quello che è stata, e lo fa con una sincerità e una crudezza disarmante. Circondata dalle persone giuste, musicisti eccellenti e in sintonia col suo sentire (su tutti, Howe Gelb – che le dona il sorriso triste di “Classico” – e John Parish chiamato a produrre il disco), Nada trova la forza di scavare ancora più a fondo, di essere ancora più dura; le chitarre di “Chiedimi quello che vuoi” hanno colori magnifici, densi, fino a quando entra la sua voce – quella voce – ed esplode in un tripudio elettrico; ancora più destabilizzante è “Asciuga le mie lacrime”, con quell’attacco che è puro noise, parole cantilenanti e pericolose come macigni, che si sciolgono in una melodia inaspettata. La voce distilla angoscia, spesso non si controlla, e ascoltarla è come prendere un pugno alla bocca dello stomaco: fa male, ti chiedi da dove venga tutto questo dolore, se sia semplice arte o che cosa si nasconda dietro. È l’amore a muovere tutto, e spesso è un’attesa vana (“E ti aspettavo”, la sommessa e incantevole “Proprio tu” scritta da Basile), altrettanto spesso è una speranza (“Ti troverò”); ma è una forza inarrestabile, alla quale ci si può solo esporre (“Quello che ho”, “Piangere o no”) rischiando che il proprio cuore diventi pietra per le troppe scosse.

L’unica cosa certa è che si esce dall’ascolto molto turbati, il cuore rimescolato dalla nudità dell’emozione (“Senza un perché”, molto meglio nella versione acustica della seconda ghost-track) o dalla violenza di un sentimento torbido (“Sono un oggetto senza valore / buttata su una sedia / a bestemmiare”, recita la title track, prima di chiudersi in un muro di cinque chitarre sovrapposte). Amore, di nuovo lui, cantato come lo avrebbe fatto un poeta romantico: bellissimo e terribile. Proprio come questo disco.

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